– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –
Vi ricordate quel lontano e fatidico anno 2001, quando a Genova scesero in piazza più di 300 mila persone riunite in un solo, unico soggetto politico, il “Movimento dei Movimenti”, per contrastare le politiche dissennate di enti come la Banca Centrale Europea (BCE), il Fondo Monetario internazionale (FMI), il World Trade Organization (WTO), le società multinazionali, rappresentate dagli otto Paesi più industrializzati? Per gli italiani si trattò anche del prosieguo della lotta contro l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi, ma soprattutto dell’elaborazione di un pensiero politico mondialista complesso, perché in grado di coniugare al proprio interno, pur con il rischio di cadere nella più insanabile delle contraddizioni, un netto rifiuto della globalizzazione dei mercati (quindi, del primato dell’economia sulla politica e sul diritto all’autodeterminazione), da ciò la definizione di no-global che il movimento si diede fin dall’inizio, risalente al Summit mondiale di Seattle nel 1999, mutata in seguito in new-global, con una politica svincolata dall’influenza dei partiti tradizionali, in una prospettiva di democrazia partecipativa dal basso, ispirata, in quanto ad ampiezza di sguardo geopolitico, all’internazionalismo novecentesco. Si trattava del primo grande movimento di uomini e donne che appariva sulla scena politica dopo quelli degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Non è durato neppure un decennio ma le sue idee sulla decrescita e l’analisi dei processi migratori, la ricerca di energie alternative, la riconversione militare, il cambiamento delle pratiche nell’agricoltura e nell’alimentazione, il divario economico spalancatosi tra ricchi e poveri nel mondo nell’era globale, il rischio ambientale, il netto rifiuto della guerra “umanitaria” esportatrice di democrazia e della sua morale ipocrita, sono, oggi, di stringente attualità. Ciò che molti osservatori non compresero allora fu proprio questo parlare di globalizzazione dei diritti, di priorità delle persone rispetto alle merci, e la naturale inclinazione a far seguire alla teoria e all’analisi messe a punto da figure intellettuali di rilievo come la canadese Naomi Klein, le indiane Vandana Shiva e Arundhati Roy, l’americano Noam Chomsky, l’inglese Paul Ginsborg, l’italiano Vittorio Agnoletto, solo per citare i più noti, l’azione, che in molte città del mondo significò essenzialmente il rifiuto delle politiche neoliberiste senza per questo richiamarsi a modelli sociali di fatto già esauritisi nel XX° secolo. Ciò che a molti, ancora, risulta difficile capire è che se oggi la palma dell’antiglobalismo è prerogativa delle destre identitarie o sovraniste, questo non significa che quel movimento, lontanissimo anni luce dal mito delle piccole patrie, dei muri e dei confini, non abbia, invece, espresso una propria visione critica originale alla globalizzazione, ossia quella “terza via” rispetto al sovranismo da una parte e il neoliberismo dall’altra. Figlio delle grandi mobilitazioni di massa per il Vietnam negli anni settanta, Il “Movimento dei Movimenti” inaugurerà la lunga e mai conclusasi stagione del movimentismo di massa (rispetto al cosiddetto groppuscolarismo extraparlamentare della seconda metà del secolo scorso che si identificava con le cosiddette “avanguardie leniniste o terzomondiste”), che durante il primo e il secondo decennio del nuovo secolo si succederanno in forme più o meno pacifiche in periodi storici di emergenza politica quasi a fare da cuscinetto critico tra i partiti e la massa degli elettori.
Vi ricordate che in quegli stessi anni (2002), intorno alla figura inquieta di un regista romano, Nanni Moretti, e di un sino ad allora sconosciuto Francesco Pancho Pardi, si coagulò un movimento che volle darsi il nome gentile e un po’ infantile di “Girotondi”, dal movimento circolare che i partecipanti compivano intorno al palazzo di giustizia romano, il famoso “palazzaccio”, allo scopo di denunciare l’incompatibilità di Silvio Berlusconi, allora sottoposto ad una serie infinita di processi, con il proprio ruolo politico e istituzionale? Quel movimento di pura testimonianza, in difesa della legalità democratica ma dallo sguardo limitato alla sola realtà italiana, durò qualche stagione e poi si dissolse. Berlusconi, invece, è ritornato in Europa!!…
Vi ricordate che intorno al 2009, apparve all’orizzonte ormai asfittico del movimentismo italiano, un nuovo soggetto politico buono per le piazze romane questa volta dal nome suggestivo di “Popolo Viola”, che risuona così diverso dal recente “Potere al popolo” di Viola Carofalo, laddove il sostantivo di riferimento non è l’insieme delle persone che con difficoltà ancora ci sforziamo di chiamare popolo, ma il potere che spetterebbe a quello stesso popolo; Che ne è della giovane pasionaria e ricercatrice universitaria napoletana, un tempo neanche troppo lontano, presente in tutti i media, adesso che qualcun altro, decisamente meno preparato, battagliero e ideologico di lei, sta or ora guadagnando le piazze d’Italia (mi si perdoni la citazione tabucchiana!…)?. La massa viola, altro tentativo di uscire dall’empasse della politica dei partiti, che portò in piazza il 5 ottobre 2009 trecentomila persone per il Berlusconi Day (B-Day), fu breve come un soffio di vento, ma non da impedire a un filmmaker ed ex giornalista come Claudio Lazzaro, già conosciuto per il contestato Nazirock, 2008, sull’onda del momentaneo successo mediatico del movimento, di farne un film documentario dal titolo Bandiera viola, 2010.
Infatti, se dodici anni orsono dall’ormai leggendario Vaffaday (V-Day) (8 settembre 2007) di Beppe Grillo e dagli alambicchi telematici di Gianroberto Casaleggio nacquero i Cinquestelle, subito diventati partito d’opposizione e successivamente di governo, smarrendo, ormai, qualsiasi connotazione movimentista, in uno scenario desolante di fine decennio (siamo ancora nel 2019), a ridosso del periodo natalizio, gioia e delizia per ogni italiano, ecco riempirsi all’improvviso una piazza (perché è la piazza il vero epicentro del movimentismo), quella di Bologna, gran teatro di lotta e non di governo nell’ormai lontano 1977, oggi però mobilitata in gran numero per scongiurare l’ipotesi possibile di una vittoria di Matteo Salvini e della Lega in Emilia Romagna, ultimo baluardo di una sinistra addormentata, smarrita nella selva oscura dei populismi e delle tentazioni autoritarie. Un altro nome. Il nome di un pesce, in sfregio all’eloquio plebeo di Salvini. Un pesce in scatola, pronto per essere mangiato. Da chi? Dai partiti e da chi altri? Di sinistra e magari anche di destra?! E da chi altri? Sarà, forse, anche un pesce insipido, senza idee forti (dichiararsi antifascisti è già qualcosa…Il fatto, poi, di chiedere a gran voce l’abolizione del decreto sicurezza voluto da Salvini e ragione prima del suo ampio consenso popolare, non definisce, certamente, un manifesto politico o un programma, ma un semplice ammonimento all’attuale governo), ma intanto, con il giovane Mattia Santori in testa, si prepara a riempire altre piazze perché noi tutti possiamo illuderci di sognare un sogno già sognato e subito svanito. Quella romana di San Giovanni (14 dicembre), infatti, festosamente riempita da centomila persone, secondo le stime degli organizzatori, vorrebbe essere l’apice della testimonianza collettiva di un malessere che dallo spazio liquido della Rete finisce, in rispetto a una tradizione consolidata, in quello concreto di una piazza reale. Malessere etico e politico, dicevamo, che difficilmente troverà uno sbocco concreto se non quello elettorale prossimo futuro, dove dovrà confrontarsi con una piazza assai più grande, quella di un’Italia maggioritaria sempre più volta all’impoverimento culturale, sociale e morale. Facile ma illusorio, dunque, sostituire entro il perimetro di una grande piazza, una massa (quella fedele a Salvini) con un’altra (quella di sinistra, oggi rappresentata dalle “sardine”), se non vi è ancora il terreno politico reale, il brodo di cultura su cui costituire una vera alternativa di sinistra, consapevole e pronta a farsi, ancora una volta, soggetto politico unitario.