– di EDOARDO CRISAFULLI –
Che i ragazzi studino la storia! Non c’è mantra più utile di questo, nella nostra triste – e smemoratissima – epoca. La rivoluzione digitale ci ha congelati in un eterno presente. La società postmoderna aveva già preparato il terreno fertile per le amnesie: con lo sgretolarsi della famiglia tradizionale è venuto meno uno dei veicoli di trasmissione del sapere: i racconti orali. Non sono scomparse solo le mezze stagioni, sono svaniti anche i nonni d’un tempo. La mia conoscenza del Novecento – fascismo, nazismo, due guerre mondiali – è nata come ‘microstoria’ fra le pareti di casa. La curiosità l’attizzarono in me le narrazioni drammatiche dei miei nonni: le fucilazioni sommarie, il volto indescrivibile dei sopravvissuti ai campi di sterminio, il pane che sapeva di segatura, il razionamento, i piedi intirizziti dal freddo perché le scarpe buone non c’erano, i bombardamenti, la tensione che si tagliava col coltello. Anche chi non è cresciuto in una famiglia anomala – mio nonno paterno ha combattuto nell’esercito italiano, uno zio di mio padre in quello germanico (in quanto tedesco ‘etnico’), il nonno materno, che era inglese, nella marina britannica – se appartiene alla mia generazione (sono nato nel 1964) condivide con me un privilegio: aver potuto ascoltare i testimoni oculari. La mia infanzia è stata scandita da traumatiche reminiscenze belliche – il nonno italiano, ex fascista, finì in un campo di prigionia britannico dove contrasse una malattia cardiaca; mia nonna paterna, un’ungaro-tedesca italianizzata, conservava religiosamente la pallottola che uccise suo fratello, pare siano stati partigiani comunisti; mia nonna materna, dall’altra parte della barricata, piangeva la morte di suo fratello, la cui nave fu affondata da un sottomarino tedesco quando aveva solo 25 anni.
Pure i miei genitori, ragazzini a guerra terminata, ricordavano bene. Mio padre, classe 1931, mi raccontò più volte l’episodio della donna sudtirolese di lingua tedesca (la famiglia paterna viveva in Alto-Adige/Sud-Tirolo), la quale, seduta su un autobus accanto a lui, se la fa addosso – letteralmente – nell’imbarazzo misto a terrore generale, mentre una S.S., salita per controllare, le punta il mitra in faccia abbaiandole: documenti, signora! Anche i silenzi carichi di emozione si stagliano nella mia memoria. Un giorno mio padre ci disse con aria seria e assorta, di cui noi, bambini, non capivamo il senso: ragazzi, siamo nel 1975! E, dopo una lunga pausa, sono già trascorsi trent’anni dalla fine della guerra! Credo che tutta la sua vita adulta sia stata vissuta in relazione a quello spartiacque storico, il 1945: prima la fame e la paura, dopo la libertà e il benessere. È un libro, quello sulla memoria politica trasmessa oralmente, che deve ancora essere scritto. In molti casi le vicende famigliari hanno influenzato le posizioni politiche dei giovani cresciuti negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. L’antifascismo, nella regione in cui sono cresciuto, l’Emilia-Romagna, l’abbiamo succhiato col latte materno: chi non esibiva un nonno partigiano o fiancheggiatore delle formazioni ribelli? Ma c’è anche chi era – ed è rimasto – ferocemente anticomunista a causa di una cicatrice: il ricordo, doloroso, di una violenza subita da un parente ad opera dei partigiani, a guerra appena conclusa – la maestra elementare picchiata e umiliata in piazza solo perché durante il Ventennio faceva cantare ai propri alunni le canzoncine del regime…
“Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”. In questo aforisma di Santayana è racchiuso tutto il senso dell’invito allo studio storico. Huxley dubita che l’homo sapiens sia capace di trar giovamento da una riflessione sul passato: “il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia ci insegna”. È difficile dargli torto – la memoria della Shoah ebraica non ha impedito il genocidio dei Tutsi in Ruanda, per limitarci a un esempio. Insistiamo lo stesso, con i giovani, fino allo sfinimento: c’è il rischio che, nel giro di una generazione, Hitler e Mussolini appaiano sfocati, nella nebbia di un passato irraggiungibile, simili a Gengis Khan o al Conte Dracula. Ha ragione Eric Salerno. Sappiamo tutti che “la storia è composta di fatti, percezioni e interpretazioni”. Che almeno i fatti nudi e crudi vengano alla luce! Ciò è vitale per la democrazia: incombe l’egemonia della post-verità: “la storia più vicina a noi non viene raccontata se non in modo superficiale lasciando i nostri ragazzi senza quelle basi fondamentali e indispensabili per combattere le fake news, il revisionismo sia dell’Olocausto degli ebrei sia dei massacri coloniali.”
È su questi ultimi che Eric si sofferma in Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana, Manifestolibri. Non c’è libro la cui lettura consiglierei di più in questo momento – come regalo natalizio in aggiunta ai soliti oggetti inutili che il consumismo ci propina. L’autore – giornalista, scrittore, esperto di Africa e Medioriente – è un personaggio interessantissimo: cresciuto fra gli Stati Uniti e l’Italia (il padre, comunista tutto d’un pezzo, emigrato negli Usa, tornò in Italia dopo aver subito discriminazioni) in una famiglia con radici ebraiche, ha avuto uno zio ufficiale dell’Armata rossa, ed ha vissuto tanti anni in Israele. È lì che l’ho conosciuto, nel 2003, quando dirigevo l’Istituto Italiano di Cultura di Haifa. Nella sua lunga carriera di corrispondente estero, Eric ha incontrato tanti protagonisti della vita politica di Paesi oppressi da dittature, oppure martoriati dal terrorismo. Pochi altri possono vantare il suo equilibrio e la sua capacità di analisi, in quel groviglio che è il conflitto mediorientale. La stella polare di Eric è l’internazionalismo imbevuto dell’utopia di un socialismo dal volto umano, sicché non ha mai fatto sconti a nessuno sulla base di comuni appartenenze etniche, religiose o nazionali. Per un compagno, la ‘mia gente’ è l’umanità tutta. Eric non nega l’importanza delle tradizioni avite e delle identità, ma sa che siamo anzitutto esseri umani. Non è, questo, un ideale cosmopolita astratto e ingenuo. Eric l’ha testimoniato sul terreno, provando cocenti delusioni. Ma giammai ripensamenti sulla giustezza del principio: un arbitrio è un arbitrio, chiunque lo compia; un crimine è un crimine chiunque lo commetta. Quando si tratta di cose maledettamente serie non vige la massima “right or wrong, my country”. Il vero patriota – termine ahimè caduto in disuso – non è colui o colei che difende a spada tratta il proprio Paese, a prescindere. È, semmai, la persona dotata di spirito critico, che denuncia le violazioni dei diritti umani commesse a casa sua. Se si spinge a tanto è proprio perché crede nei valori su cui si regge la sua patria. Certo, è molto facile amare un Paese che ha una costituzione liberaldemocratica, con tratti socialisti. E, psicologicamente, questa natura libertaria dell’Italia rende più difficile una critica severa. Pensate all’indegna bagarre scatenata dall’estrema destra quando Ilaria Cucchi cercava la verità sulla morte del fratello, Stefano. Io rispetto l’Arma dei carabinieri, ma non c’è fedeltà o sentimento di onore che valga una vita umana – non quando si è in pace e il nemico numero uno è la criminalità. Neppure uno spacciatore o un mafioso merita di morire pestato a sangue; è un cittadino titolare di diritti. Fra questi, il diritto a un equo processo. Ecco cosa vuol dire vivere in uno Stato costituzionale di diritto. Di certo rispetterò ancor di più l’Arma, ora che giustizia è fatta. Eppure ci hanno provato a farci passare, a noi di sinistra, come anti-italiani; soggetti prevenuti nei confronti di chi indossa una divisa. Il vero anti-italiano è chi, abusando del suo potere, offende i valori della nostra Costituzione. L’italianità è, anzitutto, patriottismo costituzionale.
“L’uomo non è il suo errore”, diceva un visionario, Don Oreste Benzi. Attenzione, però: la frase s’attaglia alla perfezione all’errore del piccolo delinquente, che può redimersi. Giammai può applicarsi al grande criminale, al pianificatore a mente fredda di stragi: penso a un Eichmann, il perfido organizzatore dei treni merci che trasportavano bestiame umano verso Auschwitz con la precisione di un orologio svizzero. Vi invito dunque a leggere Genocidio in Libia, giunto quest’anno alla terza edizione (la prima è del 1979, la seconda del 2005). Qui non si parla di errori o di vittime collaterali di un conflitto, bensì di scelte ponderate miranti alla supremazia etnica, la nostra. Riderete del mito “Italiani brava gente”, come se la propensione al crimine di guerra o contro l’umanità dipendesse da un tratto genetico conficcato nel DNA dei francesi e dei tedeschi, e assente nel nostro. Apprenderete dei massacri compiuti dall’esercito italiano in Libia, a partire dalla conquista coloniale, nel 1911. Massacri proseguiti con intensità e ferocia crescente durante gli anni del Fascismo: i libici si ribellavano, e i fascisti reprimevano nel sangue. Riderete di coloro che continuano a ripetere che il Duce mandava gli antifascisti in villeggiatura. Sì, forse in Italia riservò questo trattamento forzato a qualche oppositore cui risparmiò la fucilazione o le torture che minarono la salute di Gramsci. In Libia rivelò la sua natura ferina: ordinò l’uso dell’iprite – gas asfissiante proibito dalla Convenzione di Ginevra – contro civili e ribelli; volle le deportazioni di massa, le impiccagioni, i campi di prigionia in cui i libici morivano come mosche. In sintesi: in Libia gli italiani fecero pulizia etnica. Gli arabi morti ammazzati non devono forse entrare nel computo macabro delle vittime del fascismo? Mussolini e i suoi scherani sono responsabili di soli – soli! – centomila libici morti. Forse si vergognavano al cospetto di Hitler, capace di carneficine ben più memorabili. Fatto sta che centomila anime corrispondeva a un terzo della popolazione libica del tempo. Sapevate che queste cose, in Italia, era quasi proibito dirle fin negli anni Settanta? “Il leone del deserto” (1979), il film sul mitico eroe della resistenza libica Omar El Muktar impiccato dai fascisti, fu bandito da molte sale cinematografiche per “oltraggio alle forze armate” o perché avrebbe potuto “creare problemi di ordine pubblico”. Sapevate che il mito “dell’Italiano Buono, portatore di civiltà” venne rinverdito dal postfascista Gianfranco Fini, nel 2004, poco prima che diventasse Ministro degli Esteri? “Quando si parla di colonialismo italiano credo che occorra parlarne ben consapevoli del fatto che sono altri in Europa che si devono vergognare di certe pagine brutte, perché anche noi abbiamo le nostre responsabilità ma, almeno in Libia, gli italiani hanno portato, insieme alle strade e al lavoro, anche quei valori, quella civiltà, quel diritto che rappresenta un faro per l’intera cultura, non soltanto per la cultura occidentale”. Allo smemorato Fini va ricordato che il colonialismo è la più totale negazione dell’ideale risorgimentale: Garibaldi, socialista umanitario, combatté per l’indipendenza dei popoli in Sudamerica.
Grazie, Eric, per questo libro coraggioso. Il vero patriota è chi ama la Costituzione italiana nata dalla Resistenza antifascista. Non già chi difende per partito preso i connazionali che indossarono la divisa dei colonialisti o la camicia nera (altro è riconoscere l’onore delle armi a quegli sconfitti della storia che, pur sbagliando, non si macchiarono di crimini). E chi la ama, la nostra Costituzione, non può che schierarsi con Omar El Mukhtar. Anche se gli occupanti sventolavano il Tricolore.