Tra liberisti “pentiti” e contraddizioni evidenti

– di ANTONIO MAGLIE –

“Il socialismo illiberale è stato sconfitto. Il liberalismo asociale è il nuovo fronte contro il quale mi auguro continui a condurre la propria opposizione, per non perdere, come si è detto, l’anima, la sinistra italiana”. Era l’8 ottobre del 1999 quando Norberto Bobbio concludeva così il suo messaggio agli “amici” della Federazione Italiana Associazioni Partigiane (“Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza in Italia”, Einaudi, 2015, pag. 144). Era in qualche maniera l’indiretta risposta a Francis Fukuyama che aveva certificato “la fine della storia”, il trionfo della democrazia liberale in chiave capitalistica, la mancanza di alternative al modello sistemico uscito vincitore dalla Guerra Fredda, dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e di quell’Impero del Male che puntava a resistere aggrappandosi agli SS20 e venne infine cancellato dalla semplice minaccia dell’installazione dei Pershing e dei Cruise. Ma la storia non era finita e le convulsioni delle democrazie occidentali sono lì a confermare più che le incrollabili convinzioni di Fukuyama, la validità dei generosi appelli di uno tra i più grandi filosofi del diritto. Che non a caso forse prevedendo altre convulsioni, nello stesso saluto sottolineava: “Spero non mi faccia velo un pregiudizio personale. Ma vorrei ricordare che il Partito d’Azione è stato fra i partiti del Comitato di liberazione quello che ha fatto degli Stati Uniti d’Europa uno dei punti centrali del suo programma”.
Ciò che angustiava (con largo anticipo sui contemporanei) l’anziano professore, cioè il liberalismo asociale, oggi fa capolino in un pubblico pentimento di Carlo Calenda, ex ministro dello sviluppo economico e attuale parlamentare europeo. Un pentimento inatteso, anche coraggioso ma non particolarmente credibile se valutato in base alla sua storia, professionale e politica: la Confindustria, l’avventura (senza sbocchi) di Italia Futura al fianco di Luca Cordero di Montezemolo, l’infelice trasloco elettorale a Scelta Civica, la tessera del Pd quasi stracciata pochi giorni dopo la consegna poi risistemata nel portafoglio tra numerosi critici travagli, infine la fuoriuscita a breve distanza dall’elezione a Strasburgo. A essere sinceri, Calenda appare una delle mille anime in pena che vagano nei gironi infernali della democrazia-liberale in crisi; perennemente alla ricerca non di una nuova forma-partito, ma di un nuovo partito, piccolo e semmai personale perché a livello politico si può traslare la frase che Ludovico Ariosto utilizzò per spiegare la sua scelta immobiliare: “Parva, sed apta mihi”; impegnati a fornire di sé stessi l’immagine di “uomini nuovi”, esterni alle perversioni della deprecata “casta” ma condannati, al di là delle loro intenzioni, a confermare la “ferrea legge dell’oligarchia” di Robert Michels per il quale alla fine il mondo della politica si riduce a una ristretta cerchia di “professionisti” (lo sono diventati anche quelli del Movimento 5 stele, a cominciare da Luigi Di Maio).
Probabilmente è anche questo il segno di quella crisi sistemica che Marco Revelli ha illustrato nel suo ultimo libro (“La politica senza la politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite”, Einaudi). “Non si può dunque dire che stiamo assistendo in senso letterale alla fine del partito politico, ma piuttosto a una sua mutazione strutturale, in cui cambia forma, funzione, codice di comportamento, grado di assolutezza nell’organizzazione del discorso pubblico. Lo stesso si può dire della democrazia: quella che si consuma sotto i nostri occhi non è tanto la sua fine, il suo tracollo, nel senso in cui se ne parlò in occasione dell’affermarsi dei totalitarismi, quanto una sua metamorfosi profonda. Una mutazione genetica che ne lascia sussistere le strutture formali (il suffragio universale, in primo luogo) ma vi veicola processi diversi, modalità del “Politico” altre rispetto a quelle prevalenti nel lungo ciclo delle cosiddette democrazie industriali identificate con la democrazia moderna tout court”.
Così scrive Revelli (pag 162) dopo aver spiegato la genesi e l’eclisse di quella “democrazia moderna tout court”, sorta quasi come un prolungamento politico del fordismo, della produzione di massa, delle fabbriche gigantesche con una moltitudine di operai, organizzati rigidamente e impegnati a svolgere in maniera ripetitiva alla catena di montaggio sempre gli stessi gesti. Un modello organizzativo che si era concretizzato, su un altro versante, nello stato burocratizzato di ispirazione weberiana e nella stessa forma-partito (come sottolinea Revelli) teorizzata pure da Antonio Gramsci con i tre livelli in fondo non dissimili dall’organizzazione industriale fordista (i militanti fedeli e disciplinati, il vertice che pensa, decide e dà forza alla lotta della comunità e i quadri che uniscono i due livelli). Poi il fordismo è andato in crisi venendo sostituito dal toyotismo di Taiichi Ohno; il “just in time” ha prevalso sui piazzali stracolmi e sul continuo incremento delle quantità prodotte; la grande fabbrica è diventata più piccola e diffusa; l’esternalizazione ha indebolito la centralizzazione. Passando attraverso le reaganomics e il thatcherismo siamo approdati alla terza rivoluzione industriale che ha fatto crollare le ultime, residue certezze producendo effetti diversi dalle prime due che l’avevano preceduta, regalando tanta modernità ma anche poco aumento del Pil, dei livelli occupazionali e del reddito pro-capite: esattamente il contrario di ciò che era avvenuto nel passato.
Recentemente Carlo Calenda ha scoperto per sé un ruolo completamente inedito: quello del “politico di opposizione”. Sinceramente, complicato vederlo nella parte di un nuovo Brodolini intento a proclamare: “Da una sola parte, dalla parte dei lavoratori”. Soprattutto se poi la prova del nuovo abito decide di farla davanti al dicastero le cui scale saliva da ministro titolare. Non deve, allora, sorprendere se un lavoratore di quella Embraco di Riva di Chieri ancora alla ricerca di solido futuro, gli riversa addosso tutta la rabbia accumulata in una vertenza senza fine e prospettive. Nell’occasione Calenda si è difeso inopportunamente dicendo che se non fosse stato per suo merito, tutti sarebbero rimasti a spasso. Reazione evidentemente motivata da una storia familiare che lo ha messo al riparo dalle angosce del vivere quotidiano, che non gli ha spiegato quanto sia amaro il pane acquistato con il sudore della fronte, quanto sia difficile fare i conti con le bollette in scadenza e gli stipendi non percepiti. Calenda, d’altro canto, nella vicenda Embraco non è stato spettatore passivo ma interprete attivo. Anzi, a parere del lavoratore, non sufficientemente attivo visto che la vertenza si trascina penosamente. Senza mancare di rispetto all’ego debordante dell’ex ministro “pentito”, bisogna anche dire che traslocando dal palazzo romano di via Veneto, molti dei dossier da lui aperti sono rimasti tali, a cominciare da quello spigoloso che riguarda l’Ilva (ormai ex) di Taranto.
Bisogna anche aggiungere che nemmeno il suo successore, “promosso” ministro degli esteri, Luigi Di Maio, ha trovato la definitiva quadratura del cerchio e ancora oggi non si sa bene quali siano le reali strategie di una nuova proprietà che qualche sospetto l’ha sempre alimentato, mentre all’esterno nei quartieri a ridosso dell’impianto (Tamburi, Paolo VI, la stessa città vecchia) si continua a combattere con un ambiente malato che provoca spietate patologie. Chi frequenta Taranto con una certa assiduità (come chi scrive) vede passare il tempo inutilmente: nonostante governi di varia foggia e coloritura, la città è sempre in attesa di qualcuno che definisca, al di là delle parole di circostanza semmai pronunciate nella giornata di apertura della Fiera del Levante, un nuovo modello di sviluppo in grado di affrancarla definitivamente dalla monocultura dell’acciaio. Insomma, nulla è cambiato rispetto a quasi quarant’anni fa quando emergevano le prime preoccupazioni finanziarie e produttive sul futuro dell’impianto che all’epoca si chiamava Italsider e timidamente giungevano i primi allarmi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che cadevano nell’indifferenza assoluta, filtrati in qualche notizia in breve sui giornali locali (e chi scrive lo sa bene visto che in uno di quei quotidiani ci lavorava).
Dopo la full immersion di lotta, Calenda in occasione della presentazione di un libro di un noto giornalista, ha detto: “Una delle più grandi cazzate che abbiamo raccontato è che non si salvano i posti di lavoro, ma si salva il lavoro. Per cui pensiamo che un operaio di cinquant’anni che ha passato la vita a fare impianti può andare a lavorare nell’economia delle app. Queste cazzate le abbiamo sostenute, io le ho sostenute per trent’anni e poi dice che vincono i sovranisti”. E già: vincono i sovranisti. Ma a parte il fatto che alle “cazzate” hanno creduto gli ingenui (Jeremy Rifkin che ingenuo non era, qualcosa a proposito di distruzione di posti di lavoro e di emarginazione dal mercato dei lavoratori meno qualificati, l’ha scritta addirittura nei primi anni Novanta, cioè agli albori della terza rivoluzione industriale), Calenda dovrebbe compiere qualche riflessione su chi ha creato un baratro tra ceti popolari e un partito autodefinitosi di sinistra (il Pd) annullando la dignità del lavoro e annichilendo i diritti a sua difesa attraverso provvedimenti come il Jobs Act (Renzi continua a difenderlo spacciandolo per un intervento dall’alto valore (a)sociale, a riprova che le notti non sempre portano consiglio), realizzando l’obiettivo che oltre dieci anni prima non era riuscito a coronare Silvio Berlusconi con il suo governo di centro-destra sostenuto da qualche futuro sovranista che ora si scopre paladino del popolo, unico oracolo dei bisogni della gente negletta (mah!). Peraltro, tra coloro che pensavano a salvare il lavoro e non i lavoratori c’era pure lui visto che l’intesa sulla vendita dell’Ilva Di Maio l’ha chiusa aumentando solo di 700 unità i rientri in fabbrica.
In ogni caso parole chiare e dure quelle di Calenda. Ma si sa: lui, al pari di Matteo Renzi (gemelli diversi della politica) sono in cerca di visibilità per dare sostegno a progetti che avranno sui destini di questo Paese gli stessi effetti che hanno avuto le passate Leopolde. Ecco perché quel pubblico pentimento ha un sapore retorico e la retorica non ha nulla a che vedere con l’eloquenza, almeno nella definizione che di quest’ultima offre D’Alambert nel suo “discorso preliminare” alla più famosa enciclopedia della storia del pensiero (“o dizionario delle scienze, delle arti e dei mestieri ordinato da Diderot e D’Alambert): “Comunicandosi le loro idee, gli uomini cercano anche di comunicarsi le loro passioni, si valgono per questo dell’eloquenza […] Quanto alle pedantesche puerilità che si sono onorate con il termine di retorica […] esse sono atte soltanto a dare l’idea più falsa e barbara dell’eloquenza”. Di “passioni” (contenuto di cui la politica attuale fatta di messaggi superficiali e strumentali pure avrebbe bisogno) nelle dichiarazioni di Calenda se ne intravedono poche. Al contrario emerge qualche contraddizione. Ad esempio: cosa intende dire quando parla di “liberismo di metodo” e quando sostiene che “la democrazia liberale deve recuperare il pragmatismo”? In realtà tanto di metodo quanto di pragmatismo, il liberismo ne ha esibito parecchio proteggendo e promuovendo quei pezzi (estremamente minoritari) di società che hanno affidato proprio a questa predicazione le loro sorti “magnifiche e progressive”. Tanto da indurre, ad esempio Revelli, a parlare di “neofeudalesimo”: “Il numero dei miliardari è andato crescendo in modo esponenziale (simmetricamente ala crescita del numero dei poveri) come mai prima d’ora: una media di due al giorno […] Sono loro che si sono accaparrati tra il marzo 2016 e il marzo 2017 l’86 per cento della nuova ricchezza prodotta”. Insomma: pochi ricchissimi e una folla di nuovi servi della gleba.
E poi, a parte il fatto, che la produzione di cazzate è cominciata anche prima di trent’anni fa, c’è da chiedersi se il nostro “pentito” considerasse, come molti allora ritennero, la resa dei minatori di Arthur Scargill alla Thatcher dopo una vertenza durata un anno (dall’84 all’85), una “vittoria di civiltà” (che fu così civile da determinare l’impoverimento di ampie fette della società britannica) o se condividesse (e/o condivida ancora) il pensiero della cara Margaret a proposito della “società che non esiste” esistendo solo l’individuo. Sarebbe bello capire a quale porto intenda approdare questa così risoluta autocritica. Che so: alla sponda dell’economia sociale di mercato di Wilhelm Roepke (consigliere e maestro di Ludwig Erhard, ispiratore di Konrad Adenauer, da molti considerato il vero padre della rinascita economica tedesca), quella che non disdegnava l’intervento statale (purché non avesse caratteri dirigisti e non fosse d’ostacolo al libero mercato), che sollecitava la sussidiarietà credendo nei valori etici della politica e guardando con una certa diffidenza a quegli eccessi del capitalismo che determinano la nascita dei monopoli? Oppure intende ispirarsi a quel “socialismo liberale” di Carlo Rosselli che fu base ideologica proprio di quel Partito d’Azione a cui da giovane aderì Norberto Bobbio e che proclamava: “Il socialismo […] è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente […] È in nome della libertà che chiedono più equa distribuzione delle ricchezze e l’assicurazione in ogni caso ad ogni uomo di una vita degna di questo nome; è in nome della libertà che parlano di socializzazione, di abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio, della sostituzione del criterio di socialità, dell’utile collettivo, al criterio egoistico e dell’utile personale, nella direzione della vita sociale. Tra una libertà media estesa all’universale, e una libertà sconfinata assicurata ai pochi a spese dei molti, meglio, cento volte meglio, una libertà media”? Questo è un Paese che ama i pentiti, li premia pure: siamo cattolici, una confessione, qualche “gloriapadre” e la coscienza torna pulita e candeggiata. Ma per salvarci abbiamo bisogno di produttori di idee e di gente, come scriveva D’Alambert, in grado di metterle in connessione. Ma al momento prevalgono i “distributori automatici” di parole dense solo di retorica.

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