– di FRANCO CAVALLARI –
Nel dibattito di politica economica degli ultimi 20 anni la correlazione tra il tasso di flessibilità in uscita del mercato del lavoro e l’aumento dell’occupazione è stato a lungo discusso. E ancor oggi, malgrado le risultanze di studi in materia di cui diremo appresso, alcuni economisti sostenitori del libero mercato continuano a ribadire l’esistenza di questo legame. Con specifico riferimento all’economia italiana, una parte delle forze politiche continua a sostenere che la flessibilità dei contratti introdotta con alcuni provvedimenti normativi, (il “pacchetto Treu” del 1997, il “Job act” del 2015 e il “Decreto dignità” del 2018) abbia prodotto un incremento dei posti di lavoro. Queste tesi sono state ampiamente smentite, sia per gli aspetti generali, sia con riferimento all’economia italiana.
Per quanto riguarda i primi, numerose ricerche empiriche hanno dimostrato ampiamente l’assenza di correlazione tra la diminuzione della protezione della stabilità dell’impiego e l’aumento dell’occupazione. In proposito, Oliver Blanchard in un suo studio sull’argomento (1), si esprimeva così: “Le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi”. A conclusioni analoghe giungevano nel 2008 Tito Boeri e Jan Van Ours (2), che, dopo aver passato in rassegna tredici ricerche sugli stock di occupati e disoccupati in economie che avevano ampliato la flessibilità, concludevano che soltanto una ricerca segnalava una relazione tra riduzione delle tutele e crescita dell’occupazione, mentre altre nove davano risultati indeterminati e tre indicavano addirittura che la maggiore precarizzazione del lavoro era statisticamente associabile a riduzioni dell’occupazione e ad aumenti della disoccupazione.
Anche il World Development Report 2013 della Banca Mondiale rileva che “dall’ ondata di nuove ricerche del fenomeno degli ultimi due decenni, si evince che l’impatto globale della maggiore flessibilità del lavoro è inferiore all’intensità che il dibattito suggerirebbe. Per la maggior parte, le stime tendono ad essere insignificanti o modeste”. Dal canto suo, il World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale nel 2016 considerava che “le riforme che facilitano il licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche”
Con riferimento specifico alla situazione italiana dell’ultimo periodo uno studio specifico di Sestito e Viviano pubblicato da Bankitalia nel 2015 attribuisce alla maggior libertà di licenziamento introdotta dalla nuova normativa del “Job Act” soltanto il cinque percento del pur modesto aumento totale delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nella seconda metà di quell’anno: Per quanto riguarda il “Decreto Dignità” del 2018, basterà una semplice comparazione dei dati concernenti l’occupazione, le ore lavorate e il monte salari negli ultimi trimestri, per evidenziare come ai modesti aumenti dell’occupazione dell’ultimo periodo (molto modesti in verità) corrisponda un’invarianza (e talvolta una diminuzione), sia del monte salari, sia delle ore lavorate. Se ne deduce che l’effetto delle disposizioni in questione è stato solo quello di un aumento della precarizzazione, essendo l’incremento dei rapporti di lavoro (anche se a tempo indeterminato) associabile ad una parcellizzazione dell’impiego dell’intero sistema caratterizzata dalla diminuzione delle ore lavorate e dei salari medi.
In effetti, Richard Freeman dell’Università di Harvard ed altri economisti di scuole diverse hanno recentemente enucleato da numerose ricerche empiriche la cosiddetta “Congettura di Freman”(3), una conferma della tesi secondo cui la precarizzazione ha avuto un effetto tangibile negativo sul potere contrattuale dei lavoratori, ampliando le diseguaglianze nella distribuzione primaria dei redditi. In questo senso, le riforme del lavoro appaiono correlate non alla crescita dell’occupazione, quanto piuttosto ad esiti negativi per i lavoratori nel conflitto distributivo del reddito nazionale.
In conclusione, le più credibili ricerche economiche su questo argomento degli ultimi 20 anni hanno escluso l’esistenza di correlazioni statistiche significative tra precarizzazione del lavoro e aumento dell’occupazione. Con specifico riferimento al “Job Act” del 2015, possiamo considerare che l’incremento occupazionale registrato in quel periodo è ascrivibile alla parte del provvedimento che ha stabilito una parziale decontribuzione per i nuovi contratti di lavoro. Per quanto concerne il periodo più recente, alcuni economisti e certe forze politiche di governo dovrebbero finalmente riconoscere che le disposizioni di legge e l’istituzione dei “navigators” non creano posti di lavoro se non esistono le condizioni economiche affinché il sistema produca sviluppo ed occupazione; e questo condizioni economiche favorevoli possono essere create solo con un mix equilibrato tra l’ampliamento della domanda di consumo e l’incremento degli investimenti pubblici e privati.
(1) Banchard, O. “European Unemployment: The Evolution of Facts and Ideas”, in Economic Policy, n. 45 del 2006.
(2) Boeri, T., van Ours J. “Economia dei mercati del Lavoro imperfetti” Ed. Egea, Milano 2008.
(3) Freeman, R. “Labor market institutions around the world”Discussion paper 844 Ed. LSE CEP, London 2008
(4) Brancaccio, E., Garbellini, N., Giammetti, R. “Dagli slogan alle evidenze: una rassegna sugli effetti delle deregolamentazioni del lavoro”, in Buffa, F. (a cura di) ”La nuova disciplina del mercato del lavoro” Ed. Key Editore, Roma 2017