-di PIERLUIGI PIETRICOLA-
Questa Estate si svolge in un periodo tristissimo. Non per il caldo e neppure per le notizie circa l’inquinamento della plastica che, a detta degli ambientalisti, sta appestando l’intero pianeta Terra. Indubbiamente si tratta di catastrofi i cui effetti verranno patiti dalle generazioni future e dei quali noi oggi possiamo solo prevedere infausti disegni benché approssimativi. A mio avviso la sciagura peggiore che oggi l’uomo vive, sia in Occidente che in certa parte d’Oriente, riguarda l’arretratezza culturale. Posso parlare, per ovvie ragioni, dell’Italia: paese che più non entusiasma, che sopisce lo spirito invece d’illuminarlo di idee e nuovi spunti, che da troppo tempo non produce più grandi scrittori e intellettuali capaci di pensare e illustrare il contesto nel quale si vive. Questa nazione, museo a cielo aperto che attrae folle di turisti curiosi da ogni parte del mondo, sta pian piano come rinnegando le conquiste di emancipazione – sociali, politiche, dei diritti civili e culturali – che nei decenni precedenti son state acquisite a caro prezzo, con gran fatica ed inimmaginabile sacrificio. Che ciò lo si debba solo ad ignoranza, pressapochismo, lassismo dei nostri contemporanei mi par cosa troppo facile da pensare. La soluzione è altrove. Dove esattamente non saprei dire. Forse nella perdita di una certa curiosità che in tempi passati l’Italia e l’Occidente hanno di continuo esercitato per lo straniero. Ad esempio, i giovani figli delle famiglie d’un certo rango compivano il Grand Tour, viaggio di svago ma anche di apprendimento culturale che li poneva in contatto con quanto non era presente nelle loro nazioni d’origine. Attività, questa, magnifica perché contribuiva ad ampliare prospettive e rafforzare punti di vista con visioni, idee, valori, saperi prima ignoti e poi giustamente integrati nella propria cultura d’origine.
La globalizzazione, che avrebbe dovuto ancor più favorire un sentimento di vicinanza e comunanza fra diversi, ha contribuito a radicalizzare posizioni individualistiche. Quando lo si dice, i benpensanti basiscono: “È mai possibile tutto ciò? Figuriamoci! Sono le congetture dei soliti pessimisti e disfattisti”. E sia. Ma allora come spiegare che, oggi più di ieri, si ha paura dello straniero e lo si pensa solo quale barbaro delinquente? Come si spiega che il concetto classico di famiglia è entrato in crisi e si è incapaci di declinarlo in modo diverso? Come si spiegano gli episodi di razzismo e aggressione ingiustificata verso persone dello stesso sesso che manifestano la loro reciproca affezione in modo tutt’altro che offensivo?
Considerazioni, queste, che mi vengono in mente ripensando a una kermesse che ha luogo in Sicilia da qualche anno, e che si è appena conclusa raccogliendo giusto plauso e consenso. Mi riferisco al Giacinto Festival, ideato da un giovane attore: Luigi Tabita, che da anni si prodiga a far sì che la cosiddetta cultura omotransessuale possa venire rettamente intesa e non solo giudicata adottando un punto di vista moralistico.
Non voglio con ciò dire che i giusti sono da una parte e chi ha torto dal lato opposto. Personalmente ritengo che, prescindendo dalle rispettive convinzioni individuali, manifestazioni come il Giacinto Festival possono aiutare a considerare alcuni aspetti del vivere comune sotto una luce diversa, fatta non solo di rispetto e tolleranza – da sempre sbandierati ad ogni mass-media presente sul luogo di qualche evento eclatante associato ad atti sciagurati, mai però realmente praticati –, ma soprattutto di reale e razionale comprensione per coloro che mostrano diversità rispetto alla cosiddetta communis opinio.
Se un romano dei tempi di Cesare o un greco dell’antica Atene, mercé un incantesimo, venissero trasportati nel nostro evo, troverebbero forse ridicolo discutere se sia giusto o meno nutrire amore per una persona dello stesso sesso (nota, sotto tale aspetto, era l’attitudine dei nostri illustri antenati). Se la secolarizzazione ha discreditato – ingiustamente a mio avviso – la percezione del sacro, un suo giusto lascito è consistito nell’aver saputo distanziare l’individuo da alcuni dettami oramai stinti che ammantavano d’un’aura peccaminosa innocenti sentimenti d’affetto.
Il disprezzo che alcuni nutrono per coloro che inappropriatamente vengono definiti “diversi” non è il ricupero di valori perduti afferenti la sfera del sacro, del numinoso e del religioso – come molti politici affermano con baldanzosa ignoranza. Esso è semplice manifestazione di chiusura, ottusità mentale, non considerazione dell’altro, incapacità di comprendere con l’esercizio della ragione i tanti universi che si manifestano nella loro multiformità.
Manifestazioni come il Giacinto Festival credo vadano interpretate non solo come occasione per rivendicare il diritto all’autoaffermazione dell’individuo – sancito da un costituzionalismo internazionale –, bensì quale opportunità di familiarizzare con mondi ignoti per cercare di scoprirne aspetti e particolarità, senza abbandonarsi a semplicistici giudizi.
Non è, dopo tutto, questa spirituale attitudine illuministica a sottendere l’Europa tutta ed una sua vagheggiata e ancora lontana unione?