La luce di Giovanni Macchia

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

Debbo la scoperta di Giovanni Macchia, tra i maggiori e più illustri saggisti del Novecento di dimensione europea, al mio professore di Metodologia e critica dello spettacolo. Egli venne un giorno in aula e dalla borsa tirò fuori un libro dell’illustre francesista, per anni professore alla Sapienza di Roma: Elogio della luce. Ce ne parlò in modo vago, allo scopo di invogliarci alla lettura del volume così da conoscere, oltre che una grande personalità, un modo originale e creativo di praticare l’arte di leggere un testo.

Le prime righe di Elogio della luce hanno un non so che di poetico che sempre rimane impresso nella mente: “Un tempo le Muse, sotto la guida luminosa di Apollo, rispettando la funzione loro assegnata, vivevano tutte in dolce comunanza. Ma poi, durante i secoli, esse sembrarono smarrire ogni serenità e saggezza. Alcune di esse scomparvero totalmente dalla scena. Altre, tentando di occupare le terre delle loro compagne, finirono per scambiarsi arnesi e attributi. E tutto l’universo espressivo dell’età moderna è stato percorso da uno stuolo di muse inquiete, le quali, abbandonata la sede del monte Elicona in Beozia, si aggirarono nelle strade rumorose delle nostre città, a volte malate, date le necessità dei tempi, bisognose di denaro, venali”. Un esempio di come anche l’attività più fredda e razionale al mondo – la critica – possa tramutarsi in poesia. Macchia, in poche righe e una sola immagine, ha sintetizzato il percorso che l’arte moderna ha compiuto, l’evoluzione che essa ha conosciuto, le possibilità di declino in cui è potuta incorrere in alcuni momenti e non per suo volere.

La caratteristica che sulle prime mi stupì, lasciandomi quasi indispettito, ma poi mi avvinse fin quasi a non potervi più rinunciare, è la capacità di sintesi di cui Macchia è dotato. Egli è critico che non ama abbondare in ragionamenti o parole; non predilige un linguaggio artificioso, tecnico, asfittico, privo di musicalità. Per Macchia, la parola è anzitutto felicità nell’usarla, gusto nel leggerla. Per giungere a questo risultato, egli adotta uno stile musicale ma piano, levigato al punto da apparire fin troppo semplice, privo com’è di orpelli e virtuosismi. Man mano, però, che si avanza nella lettura, ci si rende conto che tale risultato viene raggiunto a seguito di numerosi ripensamenti, mutamenti di punti di vista, gioia nell’esplorare l’oggetto studiato senza appesantirlo con tecnicismi che finirebbero per soffocarlo.

Il metodo di Macchia – se di metodo si può parlare nel suo caso – intende preservare la purezza del testo. Pietro Citati ha ragione quando afferma che questo critico è uomo che ritrae i suoi soggetti come un pittore: guardandoli a distanza. Ma di ciò che vede, egli ci comunica le rêveries rimaste impresse nella sua memoria. Così facendo, la critica non solo diviene evocazione di sogni o fantasmi dei quali abbiamo avuto esperienza e il cui ricordo sfuma di pari passo all’avanzare del tempo; ma soprattutto narrazione, creazione ex novo dell’opera di cui lo studioso tratta. Per usare una felice immagine di Oscar Wilde: la critica come arte.

Macchia inizia le sue indagini sempre dall’opera letteraria. Ma non si ferma a questa, perché la trattazione pian piano si amplia invadendo campi che con la letteratura intrattengono comunque relazioni, precise o vaghe che siano. Con cipiglio tecnico, alcuni specialisti direbbero che ci si trova di fronte ad un esempio di comparatismo, cioè lo studio delle relazioni e similarità esistenti fra le diverse opere – previste o meno dagli autori. Io preferisco parlare, a tal proposito, di diramazioni o – ricorrendo a terminologia più filosofica – di holzwege, sentieri che iniziano e si perdono nel fitto del bosco così lasciando l’incauto viandante disorientato.

Pregio, fra i migliori, posseduto da Macchia, è la capacità di non asserire, di non voler porre la parola definitiva ad un’ipotesi di lettura. Egli sa che non esisterà mai un’interpretazione unica, dato che l’arte è il regno della metamorfosi continua. Riprendendo una felice lezione mutuata dal suo Baudelaire critico, Macchia “sentiva la efficacia della chiarezza inerente all’espressione, e al tempo stesso la forza dell’oscurità che attrae gli sguardi umani e che nessun sole può vincere”.

Esempi di questo modo di procedere, poetico più che tecnico, ma sempre preciso, circostanziato, ci vengono offerti da Elogio della luce: libro che val la pena di leggere, perché fra le maglie dei tanti argomenti che vi si affrontano, pur attraversando zone d’ombra lo scopo è sempre solo uno: “Tentare di giungere anche stilisticamente nel regno della luce”.        

pierlu83

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