– di TOMMASO CAPEZZONE –
Il continuo susseguirsi d’inquietanti fatti di cronaca c’impongono, a mio avviso, un approfondimento dei danni che una certa gestione della giustizia sta apportando all’Italia.
La domanda di legalità e sicurezza che sale dal Paese, in particolare dalle sue periferie, non viene raccolta dall’apparato pubblico che dovrebbe garantirle.
Nessuna o pochissima parte di attenzione viene data da questo apparato ai reati che determinano lo stato d’insicurezza in cui vive la cittadinanza.
La maggiore attenzione di repressione viene esercitata nei confronti di reati amministrativi, spesso irrilevanti e solo formali, che nella maggior parte dei casi finiscono con l’assoluzione dopo anni e anni di attesa.
Questo stato di fatto determina una serie di gravissimi problemi:
– abbassamento della qualità del personale politico e istituzionale dal momento che le migliori professionalità non mettono a rischio le loro carriere e la loro reputazione avventurandosi in una carriera politica o istituzionale;
– a fronte del timore delle forze produttive sane di accostarsi alla macchina pubblica per tali problemi aumenta l’incidenza di forze mafiose e corruttive che non hanno certo di questi timori;
– paralisi amministrativa degli apparati pubblici timorosi di cadere sotto la mannaia di un’indagine per abuso d’ufficio;
– scarsissima propensione a investire in un Paese in cui non c’è certezza di giustizia.
Tutto ciò sta distruggendo qualsiasi tentativo di rilancio dell’economia.
Lo “sblocca Italia”, fu concepito per lanciare una serie consistente di opere pubbliche per rimettere in moto la macchina dell’economia nazionale fortemente in affanno per la lunga crisi cominciata nel 2008. Ebbene rilevazioni recenti hanno messo in evidenza che, fatto 100 le opere previste dallo “sblocca Italia”, solo il 20% è andato in porto. Le cause di questo sostanziale blocco dell’economia pubblica d’investimento sono molteplici, ma la maggior parte sono connesse a fattori burocratici e giudiziari.
Dopo la tragedia del ponte a Genova e le dispute già sorte sulla sua ricostruzione, il Sole 24 ore ha ricordato che per la ricostruzione di un ponte in Sicilia sono occorsi 10 anni di cui solo 5 per la sua effettiva ricostruzione e gli altri 5 per adempimenti burocratici.
Ora chiunque si può rendere conto di come questo congelamento degli investimenti pubblici ha conseguenze, dirette e indirette, sulla principale piaga del Paese: la disoccupazione giovanile. In conclusione i lavoratori dipendenti pagano, con le tasse direttamente prelevate dalle buste paga (e quindi non suscettibili di evasione), una macchina pubblica che, non solo non mette in campo le condizioni per la creazione di posti di lavoro per i giovani disoccupati, ma con il suo modus operandi blocca quel poco che fa per risolvere questo problema.
Questo il quadro generale, ma se scendiamo nello specifico della macchina giustizia notiamo altre e altrettanto gravi problematiche.
La prima osservazione che subito salta agli occhi di chiunque abbia avuto a che fare con la giustizia è che, a fronte di grandi e ormai longevi investimenti tecnologici, la lunghezza dei procedimenti invece di diminuire è aumentata.
Larga colpa di questa paradossale situazione è dovuta alla totale ignoranza dell’ovvio paradigma che l’introduzione di processi tecnologici deve camminare di pari passo alla modifica dei processi procedimentali altrimenti le tecnologie diventano solo una sorta di fotocopia di quello che una volta erano i faldoni.
L’evidenza di questa problematica è lampante nella nota, per gli addetti, questione delle pec (posta elettronica certificata).
È da decenni che si studia il processo telematico e in tutto questo tempo non si è riusciti a capire che telematica non significa affatto la semplice, e permettetemi stupida, smaterializzazione dei fascicoli.
Sarebbe dovuto essere logico e lapalissiano che un fascicolo smaterializzato deve non solo viaggiare, ma anche essere lavorabile.
Mi scuso ma devo scendere in particolari per evidenziare la situazione kafkiana in cui si è rinchiuso il sistema giustizia:
essere lavorabile significa che gli addetti nell’ordine devono:
– protocollare il fascicolo smaterializzato (il protocollo nel sistema giustizia non è un mero affare burocratico, ma determina le scadenze con tutte le conseguenze del caso buon ultima la famosa prescrizione);
– acquisire dal fascicolo una serie d’informazioni tra cui il tipo di questione in oggetto che a sua volta determina le varie scadenze (che infatti non sono tutte eguali), il tipo di giurisdizione (e ve ne risparmio l’elencazione dal tributario al tribunale delle acque) e l’importo finanziario della questione;
– smistare il fascicolo alla relativa sezione dove finalmente si comincia a lavorarlo.
Ora tutte queste informazioni una persona di buon senso dove presumerebbe che siano?
Ovvio: raggruppate insieme da una qualche parte facilmente raggiungibile e leggibile in un fascicolo medio di 30-50 pagine.
Cari miei pazienti lettori manco per niente: questi dati sono sparsi all’interno del fascicolo.
Sembrerebbe a un profano un problema irrisolvibile: niente di più falso.
Basterebbe, come per le fatture, far inserire dal mittente questi dati in un format prefissato in una piattaforma.
Possibile che al Mef c’hanno pensato e alla Giustizia no?
Probabilmente c’è un problema culturale, forse al Mef hanno gli economisti e alla Giustizia i giuristi, potrebbe esserci una maggiore attenzione alle finanze che non alla giustizia…
Come che sia questa è la situazione e il Paese tutto ne paga le conseguenze in termini economici, sociali e politici.
Ho fatto quest’esempio, che pur creando tanti problemi non è sicuramente la situazione che più contrasta col desiderio di giustizia del Paese, per mettere in rilievo la questione culturale di fondo che blocca il sistema giustizia.
Se altri settori chiave del paese – come il sistema pensionistico, quello tributario e quello sanitario – sono riusciti a creare piattaforme elettroniche in grado di gestire enormi masse di dati sensibili, come mai alla giustizia tutto ciò non riesce?
C’è forse un problema culturale di riduzione delle questioni anche tecniche sempre e solo a formalismi pseudogiuridici?
C’è incapacità di delegare a ingegneri di processo capaci di solving problem?
C’è, insomma, in poche parole chiusura di casta?