– di FRANCO CAVALLARI –
Lo “Stato-nazione”, nella storia moderna europea nato dopo il periodo delle città-stato, ha affinato ed approfondito nel periodo a cavallo tra il XIXmo e il XXmo secolo le funzioni fondamentali della sovranità nazionale: il controllo dei confini dello Stato, la formazione del bilancio pubblico e la “sovranità monetaria”. Ma nella seconda metà del secolo scorso, nel contesto di un progressivo ampliamento degli scambi commerciali internazionali, alcuni Paesi europei, usciti da due disastrose guerre mondiali, superarono parzialmente i canoni di sovranità dello Stato-nazione. Ad iniziativa di alcuni statisti illuminati, fu avviata nel vecchio continente la costruzione di un insieme politico proiettato verso un’era di grande prosperità e di pace. Nasceva una Comunità di Stati-nazione che, consapevoli dell’irrilevanza nel mondo moderno di singole realtà statali, davano vita ad una nuova forma di collaborazione solidale; una comunità di Stati sovrani entrava nel consesso geopolitico come entità internazionale, prefiggendosi di assicurare ai cittadini dei Paesi partecipanti i grandi benefici economici e sociali della coesione interstatale, fino a rendere possibile anche il conio di una moneta unica, divenuta una delle principali monete di riserva mondiali.
In un tale contesto, i tre elementi costitutivi che caratterizzano lo Stato-nazione perdevano una parte rilevante della loro valenza, essendo venuta meno l’essenzialità dell’esercizio esclusivo del potere statale, non più funzionale rispetto ai fini pubblici. Una porzione significativa della sovranità degli Stati è quindi confluita in una sovranità sovraordinata; una nuova sovranità più consona allo sviluppo economico e sociale di una zona che si pone nella realtà mondiale attuale come un’area di stabilità e di pace, cerniera fondamentale negli equilibri tra le grandi aree di influenza geopolitica del mondo.
Ne è conseguito che il presidio dei confini statali ha trovato la sua “collocazione comunitaria” nella libera circolazione delle persone, delle merci e dei capitali all’interno dell’Unione; la sovranità monetaria, tanto invocata dal nazionalismo di destra, ha assunto un respiro più ampio nella moneta unica; e la libertà di formare il bilancio delle risorse pubbliche nazionali secondo le esigenze locali ha trovato un limite nella consapevolezza che i saldi di bilancio di ciascuno Stato membro esercitano una grande influenza, sia sull’equilibrio economico dell’intera area europea, sia sulla stabilità della moneta unica.
Nel corso dell’evoluzione delle istituzioni europee, la traduzione in assetti normativi di questi principi ha evidenziato non poche criticità, difetti, pietre d’inciampo non trascurabili allo sviluppo del consenso nei confronti del grande disegno europeo. Ma gli Stati sono chiamati a guardare oltre la siepe delle difficoltà contingenti, correggendo le anomalie di funzionamento della solidarietà europea; restando ben chiaro che l’esistenza dell’Unione Europea comporta alcune limitazioni della sovranità nazionale, senza le quali nessuna comunità sovranazionale può funzionare.
Sulla base di queste premesse è lecito chiedersi quanto validi siano gli argomenti invocati dal sovranismo sostenuto dai populisti di destra e di sinistra dei singoli Stati, in apparenza più adatto a risolvere i problemi delle popolazioni locali. Al riguardo, constatiamo che solo il sovranismo più estremo può disconoscere che la sovranità nazionale dei vari Paesi risulta completamente inadeguata a fronteggiare i grandi problemi che si pongono nel contesto dell’assetto internazionale del XXI secolo. Ad esempio, quale sarebbe la sorte del nostro continente se gli Stati membri impegnassero le rispettive sovranità nel far prevalere nei loro rapporti il principio “prima gli italiani”, coniugato nelle varie lingue? E come potrebbe l’esercizio statale della “sacra” sovranità monetaria ad esclusivo vantaggio nazionale essere compatibile con l’appartenenza ad un’Unione di Stati basata sulla solidarietà?
L’Unione Europea e l’Eurozona sono, evidentemente, costruzioni incomplete, cui manca ancora una concreta prospettiva di integrazione economica e politica, requisiti indispensabili per lo sviluppo solidale e la tenuta della moneta unica; ma non sfugge alla riflessione delle intelligenze più lucide che l’Unione in divenire dei nostri giorni, malgrado riscuota il consenso della stragrande maggioranza dei suoi cittadini, corre il grave rischio di veder dissolversi ed evaporare gradatamente, insieme a quel poco di coesione esistente attualmente, anche la prosperità e la pace sviluppatesi in Europa nel clima di leale collaborazione dei primi anni della Comunità europea.
Di fronte agli scenari inevitabilmente stentati dell’autarchia che le tesi sovraniste prospettano, occorre un cambio di passo della politica europea, un rinnovamento dell’impostazione della politica economica, incentrandola sulla solidarietà e su una progressiva riduzione delle diseguaglianze economiche e sociali. Una politica generale comune che tenda a superare il torpore della “ragione” delle popolazioni europee, affascinate dalle chimere del cieco sovranismo che le ha relegate in un orizzonte miope e senza sbocchi; un “cul de sac” che ha sconvolto la percezione della realtà dei ceti meno abbienti e delle comunità periferiche dei vari Paesi, impaurite dalla carenza di prospettive per le nuove generazioni. E’ necessario comprendere che è indispensabile trovare un punto di equilibrio di poteri tra nazionalismo e sovranità europea; anche perché, rincorrendo interessi egoistici e di corto respiro, gli Stati europei sarebbero destinati in tempi brevi a ritrovare tutte le motivazioni delle guerre intereuropee dei secoli passati e del XXmo secolo in particolare.
Per quel che concerne l’Italia, la rivendicazione della destra (e non solo) di poter attuare politiche monetarie e di bilancio più permissive, erroneamente considerate più adatte alla situazione economica del nostro Paese, presuppone l’abbandono dell’Eurozona ed il diritto di svalutare la nostra nuova moneta, in modo da favorire la competitività esterna delle nostre esportazioni, stimolando la crescita attraverso il canale estero. Qualcosa di analogo il sovranismo invoca in materia di bilancio, quando pretende di modificare a piacimento i saldi di bilancio e il loro rapporto rispetto al PIL, considerando lo spread dei tassi di interesse una creazione dell’Eurozona; senza considerare che le differenze nei tassi di interesse esistevano anche prima dell’euro, ma costituivano un ampio ventaglio di rapporti bilaterali, che prendeva il nome di “differenziali”, il livello dei quali era influenzato dalle differenze di inflazione e dai molteplici tassi di cambio bilaterali. Ad esempio, nel 1980 il tasso di interesse sui Bot oscillava intorno al 22-23% in ragione di un tasso di inflazione intorno al 20% e di una parità esterna che svalutava sovente, mentre il tasso di interesse sui Bund tedeschi oscillava intorno al 4%.
I sostenitori della sovranità monetaria nazionale portano l’esempio degli USA in cui la Politica monetaria e la Politica di bilancio molto permissive del periodo della Presidenza Obama, dopo il forte rallentamento causato dalla crisi del 2008, hanno rilanciato con successo la crescita, L’enorme operazione di “riflazione” monetaria effettuata da Obama dopo la grande crisi ha portato il rapporto Disavanzo/PIL vicino al 12% ed ha, in effetti, rimesso in movimento il notevole potenziale industriale degli USA, in buona parte sottoutilizzato, senza subire grandi scossoni inflazionistici. Ma ciò è potuto avvenire, sia in ragione del basso quoziente debito/PIL (50% contro il 132% italiano attuale), sia in ragione del “vantaggio esorbitante” di cui gode il dollaro quale maggiore strumento di riserva valutaria internazionale, accettato, peraltro, in pagamento come moneta circolante in moltissimi Paesi. Tuttavia, attualmente, malgrado il rilancio di Obama e la detassazione trumpiana, il debito pubblico USA è rimasto entro i limiti del 100% del PIL; un livello ben al di sotto del nostro, che comincia, però, a far serpeggiare allarmanti sintomi di distorsioni economiche e di un pauroso aggravamento delle diseguaglianze.
Un discorso simile meriterebbe l’affermazione secondo cui, nel periodo della detassazione reaganiana tanto cara alla destra sovranista, gli USA avrebbero conosciuto una crescita miracolosa. Se focalizziamo l’analisi sull’esperienza storica effettiva della politica di detassazione attuata da Reagan nel periodo 1981-88, rileviamo non poche carenze1. Va innanzitutto rilevato che il debito pubblico statunitense, benché quasi raddoppiato (è passato in quel periodo dal 35% al 60% del PIL), restava ancora su un livello innegabilmente accettabile per i creditori. Contrariamente a quanto si crede, nel 1986 fu varata una seconda riforma di segno opposto a quella del 1981 e negli otto anni complessivi della Presidenza Reagan intervennero altre numerose misure di segno alterno. Tirando le somme dei due mandati presidenziali, il Premio Nobel J.E.Stiglitz ha così commentato quel periodo 2: “……. il Presidente Ronald Reagan dichiarò che il gettito fiscale sarebbe aumentato. Invece, la crescita subì ben presto un rallentamento, le entrate fiscali crollarono e a farne le spese furono i lavoratori. I grandi vincitori, in termini relativi, furono le aziende più importanti e i ricchi, che trassero beneficio da una forte riduzione delle aliquote fiscali…Tutto questo squallore non può essere edulcorato dalla trita affermazione che tasse più basse stimolano la crescita, un’affermazione priva di qualunque fondamento teorico o empirico. In un Paese con così tanti problemi, soprattutto legati alla disuguaglianza, (gli USA, ma anche l’Italia ..ndr) gli sgravi fiscali sul reddito per le aziende ricche non ne risolveranno neanche uno. Questa è la lezione per tutti i Paesi che contemplano l’ipotesi di agevolazioni fiscali per le imprese “.
Tornando al sovranismo di casa nostra, il desiderio degli italiani di andare oltre lo stallo di una crisi economica decennale, ha sollecitato un grande il consenso alle tesi della destra sulla sovranità monetaria e alle soluzioni favorevoli alla crisi di crescita italiana che con essa si prospetterebbero. A questo proposito, notiamo che il nostro Paese ha già vissuta una situazione di questo tipo in un’epoca di poco antecedente all’avvento dell’euro. In quella fase storica, quando gli ampi disavanzi pubblici erano coperti con debito pubblico (assorbito in gran parte dalla Banca d’Italia) e l’inflazione a due cifre galoppava speditamente verso il 20%, le frequenti svalutazioni della lira rincorrevano la grande inflazione, cercando di arginare la speculazione e di ricreare nuovi spazi di competitività alle nostre esportazioni. Un periodo culminato nel 1992 in cui l’Italia è stata sul punto di dichiarare “default”, e il Presidente del Consiglio G. Amato, per evitare la catastrofe finanziaria, fu costretto ad imporre un prelievo straordinario sulle attività liquide.
Per quel che può valere il confronto con una fase dello sviluppo economico molto diverso, forse è il caso di ricordare che il miracolo economico vissuto dall’Italia nei primi anni ‘60, è avvenuto in un contesto in cui la lira non solo non svalutava, ma vinceva l’Oscar per la stabilità monetaria, con un debito pubblico sotto il 70% del PIL.
A parere di chi scrive, per rilanciare la crescita in una situazione di grave squilibrio come quella italiana, ove “il convento è povero, ma i frati sono ricchi”, se non si vogliono tassare le grandi ricchezze private dei cittadini, occorre impiegare massicciamente le poche risorse disponibili (quelle che ci consentono i restanti esigui margini del disavanzo) negli investimenti pubblici e nella decontribuzione delle aziende che producono occupazione, invece di detassare i ricchi e, in sovraccarico, di ampliare la spesa corrente come il Reddito di cittadinanza e l’abbassamento dell’età pensionabile. La prospettiva avanzata dai sovranisti di inseguire la crescita attraverso la svalutazione di un’immaginaria nuova lira è pura velleità demagogica. Il tasso di pericolosità di questa prospettiva sembra essere sottovalutato da tutte le forze politiche, almeno a giudicare dalle pallide reazioni degli altri partiti a questa sciagurata ipotesi. I miti del sovranismo economico, pericolosamente indulgenti verso le ideologie nazi-fasciste, implicano una guerra doganale e/o valutaria tra i singoli Stati europei a protezione delle rispettive economie nazionali. Essi rappresentano la ricetta perfetta per involvere i Paesi economicamente più fragili nella spirale perversa dello spread (la cosiddetta “espansione restrittiva” evocata dal Governatore della Banca d’Italia) trascinandoci nel vortice dell’inflazione/svalutazione già sperimentata dall’Italia in un tempo non molto lontano.
Se il nostro Paese dovesse, malauguratamente, intraprendere la strada dell’abbandono dell’euro e quella dei suoi corollari di bilancio, o se l’Eurozona dovesse dissolversi, sarebbe l’inizio di una rapida discesa verso un “default” non molto dissimile da quelli susseguitisi in stretta sequenza in un Paese un tempo ricchissimo come l’Argentina, ove 40 milioni di abitanti sono ridotti alla fame, pur avendo risorse naturali per nutrirne 400 milioni.
1) Nel periodo 1981-88, rileviamo una consistente crescita economica iniziale, ma anche un enorme deficit del bilancio Federale, salito dal 2,6% del 1981 al 4,8% del 1983, al 5% nei cinque anni successivi. In conseguenza, il debito pubblico crebbe enormemente e gli interessi per finanziarlo fecero lievitare ulteriormente il disavanzo del bilancio Federale. Anche il ritmo dello sviluppo scese dall’8% del 1982 ad una media più modesta del 3%, mentre il conto corrente della bilancia dei pagamenti, sostanzialmente in equilibrio nel 1980, registrava nel 1989 un disavanzo di 1000 miliardi di dollari. Il secondo mandato di Reagan si chiudeva con gli effetti della disastrosa crisi di borsa dell’autunno 1987.
2) (Cfr. J.E. Stiglitz: “Why tax cuts for the rich solving nothing”, in “Projet Syndicate“ del 27/07/2017..