-di PIERLUIGI PIETRICOLA-
Le cose che bruciano di Michele Serra è un libro essenziale. Per alcuni aspetti rappresenta una naturale continuazione di un filone narrativo inaugurato con Gli sdraiati. Per altri, invece, si tratta di un libro singolare, difficile da raffrontare a tanti altri esempi della e nella letteratura contemporanea.
Innanzitutto per lo stile con cui il libro è scritto: essenziale, preciso, descrittivo senza essere prolisso, ironico e mai superficiale.
La storia che vi si racconta è quella di un uomo che potremmo definire schifato dalla società e dai suoi vizi. E che in virtù di questo sentimento di sdegno, decide di ritirarsi in una località lontana dai clangori cui ci si è, ormai, assuefatti: Roccapane. Qui Attilio Campi – il nome del protagonista del romanzo di Michele Serra – riscoprirà l’importanza di valori ormai desueti per la società contemporanea, e come sviluppare preservare una propria individualità del tutto libera – in senso autentico – dalle varie piccinerie cui la quotidianità obbliga gli uomini a sottostare.
Romanzo apocalittico? Certamente no! Semmai metafora di una tendenza naturale dei nostri tempi.
Ma chi sono gli Attilio Campi dei nostri giorni? E quali i roghi ch’essi ben congegnano per essere uomini liberi?
Di questo e molto altro abbiamo avuto l’onore, nonché il piacere, di parlare con Michele Serra.
Il protagonista del suo ultimo libro è un uomo indignato dalla politica, più che deluso. Indignato per una sua proposta di legge non accolta. Quanto in questa indignazione esternata da Attilio c’è di Michele Serra e quanto, viceversa, questo personaggio le ha fatto scoprire lati della sua personalità che mai avrebbe immaginato di possedere?
La letteratura serve per vivere vite che non potremmo mai permetterci. E’ il caso di Attilio: molto più radicale, più coraggioso, più libero di me. Ho voluto che fosse un politico per aumentare la portata del “salto” di Attilio dal massimo del pubblico, che è appunto la politica, al massimo del privato: che è la solitudine.
Mi ha colpito, ad un certo punto del libro, questa frase: “Qualcuno ci provi, a fare politica, è commovente. Nessun sarcasmo: ‘commovente’ è la parola giusta. La politica è commovente, e commovente è chi fa politica, dal primo dei capipopolo all’ultimo dei traffichini”. In tempi dove è il risentimento a dominare la politica – da parte degli addetti ai lavori e dell’elettorato -, trovo quanto mai originale, e profondo, parlare di questo contesto qualificandolo come “commovente”. Come mai questa scelta in netta controtendenza rispetto ai tempi?
Ho sempre trovato meschina e sciocca la denigrazione dei politici. I politici sono identici a noi, i politici siamo noi che facciamo politica. La distinzione tra Palazzo e Popolo è un tremendo abbaglio ideologico. Il popolo non è migliore né peggiore della politica. E’ uguale.
Le cose che bruciano potremmo definirlo un inno alla liberazione: liberarsi da tutti gli inutili orpelli che affastellano la nostra vita, fino a soffocarla e a impedirci di ragionare. Secondo lei, oggi, bisognerebbe vivere una esistenza più discreta e meno pubblica per comprendere ciò che accade in noi e intorno a noi?
Ma sì, certo, bisognerebbe. Il problema è che non ce lo possiamo permettere. Ci tocca lavorare, combattere gomito a gomito con gli altri, faticare. L’aspetto che mi piace di più, nella scelta di Attilio, è che accetta di farsi mantenere dalla moglie, vive con poco, pretende poco da se stesso. Rivoluzionario, direi.
Ricollegandomi alla domanda precedente: lei pensa che il tempo dell’impegno nella società pubblica, così come lo abbiamo conosciuto nel XX secolo da parte di alcuni intellettuali – Sartre e Camus, per citare due celeberrimi esempi – sia ancora ripetibile; oppure la tendenza sarà sempre più quella di uscire dal mondo (per parafrasare un celebre titolo di Elémire Zolla) come ha fatto il protagonista del suo libro?
Non ho risposte assolute. Rispetto la scelta di chi “si impegna” ma anche quella di chi fugge. Certo chi fugge è imputabile di avere anteposto la sua ricerca individuale a quella del benessere collettivo. Ma non mi sento di biasimare chi si chiude in se stesso. Nella società di massa, che è soffocante, invasiva, la solitudine è un valore inestimabile.
“Si cammina nella vastità, si è un dettaglio dell’insieme, diluiti nell’aria e nella luce, sollevati dalla pesantezza dell’ego”. E’ il raggiungimento di una consapevolezza da parte di Attilio. Secondo lei oggi si è persa, nella persone, questa cognizione di essere “un dettaglio nell’insieme”?
Eccome , se si è persa. La coscienza del limite è il grande assente. In origine il mio romanzo si intitolava “L’umiltà”, ho cambiato titolo nelle ultime settimane. Mi piaceva l’idea che una personalità litigiosa e arrogante, come quella di Attilio, provasse a diventare umile. Per scommessa, forse per paradosso.
Attilio è, indubbiamente, un personaggio la cui personalità è forte. Non è un remissivo. E’ convinto delle sue idee e le difende. Il cammino “verso l’umiltà” che decide di compiere, in qualche modo lo cambia. Questo percorso, secondo lei, è una possibilità che ciascuno di noi, singolarmente, si troverà a vivere ad un certo momento della vita, oppure si tratta di pura casualità?
Ognuno risponde per se stesso e di se stesso. Ci sono persone che cercano la semplicità e la leggerezza per carattere, altre che ci arrivano perché la vita le ha bastonate. Certo, adesso che ho 64 anni, vedo le cose con maggiore libertà, maggiore senso del relativo. Le cose davvero gravi sono poche. Il resto, in genere fa ridere.
Divenire liberi da se stessi: è il punto di consapevolezza massimo che Attilio intuisce di dover raggiungere. Quali sono le strade che, secondo Michele Serra, bisogna percorrere per liberarsi da se stessi?
Bisognerebbe prendersi un po’ meno sul serio. So che è una frase banale. Ma conosco ben poche persone che sono capaci di non prendersi troppo sul serio. Le stimo molto.
Anche lei, come il protagonista del suo libro, pensa che siamo alle porte di una “Terza Guerra Mondiale” – un evento apocalittico, in senso letterale e originario del termine – che cambierà il contesto in cui viviamo? In tal senso, che scenari immagina per il nostro futuro?
Beh sì, sono abbastanza apocalittico. Specie se si ha un minimo di cultura ambientale, si capisce che siamo come il cammello che si incastra nella cruna dell’ago. Zanzotto lo chiamava “sviluppo scorsoio”: è la nostra società. Mi auguro, non per me che ormai ho vissuto, ma per i nostri figli e nipoti, che non sia la Grande Catastrofe, quella che è dietro l’angolo. Ma una serie di piccole catastrofi, ognuna delle quali ci insegni qualcosa.
“Libertà è un rogo ben congegnato”. Vale a dire che essere liberi è una costruzione quotidiana che ciascuno di noi ha il dovere di compiere. Da dove, secondo lei, è necessario iniziare?
Mah, una buona idea sarebbe vuotare un armadio, ogni tanto. E buttare via tutto. Abbiamo troppe cose. E’ così facile capirlo: troppe cose. E alla fine non riusciamo a godercene davvero più nessuna.
Ad un certo punto della storia, Attilio si trova a dover fare i conti con il suo passato. Senza dover svelare troppo del libro, mi interesserebbe sapere, secondo Michele Serra, cosa andrebbe conservato del nostro passato (come individui singoli e sociali) e cosa andrebbe, invece, bruciato?
La memoria storica andrebbe conservata per intero. Quella personale, andrebbe fortemente mondata, alleggerita. Invece accade il contrario, purtroppo: molti non sanno niente della Shoah, ma ricordano tutto delle loro piccole vite.
Chi sono gli Attilio Campi del nostro tempo – se ce ne sono -?
I monaci. E certi contadini.