Sul Kailasa con Tucci

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

Tempi duri quelli in cui è necessario richiamare alla memoria persone, opere, pensieri e tradizioni che mai andrebbero dimenticati. Gli anni e il loro trascorrere, si sa, sono impietosi e destinano all’oblio tutto. Ma il ricordo degli uomini, l’attività della conservazione e della selezione dell’immenso patrimonio di cui si dispone, sono gli unici mezzi coi quali combattere l’oblivione. L’Italia, da parecchi decenni, ha accantonato anche questa pratica.

Si provi a svolgere, fra i giovani studenti o quelle che con certa ironia Alberto Arbasino definiva “casalinghe di Voghera”, un’indagine chiedendo: “Chi è Giuseppe Tucci”? Nessuno saprà rispondere.

Qualche tempo fa è uscito un libro dedicato a questo straordinario personaggio. Il titolo è quanto mai ingiusto: L’esploratore del duce. Quest’immenso studioso si è trovato a vivere e a lavorare nei tempi del Regime. Ma tale concomitanza – assieme alle debolezze ascrivibili all’uomo ma non all’intellettuale – nulla sottraggono al suo magistero.

A coloro che ne ignorano il grande lascito, mi permetto di segnalare una visita al Museo di Arte Orientale a Roma, che porta il suo nome, sito in via Merulana – quella del Pasticciaccio di Gadda. I reperti che lì si trovano, nonché il metodo col quale vengono studiati e offerti ai visitatori, è tutta eredità di Tucci. Così come ciò che conosciamo delle culture e filosofie d’Oriente. Nulla avremmo saputo se non vi fosse stato questo professore ed esploratore proveniente da una regione – le Marche – “conclusa fra il mare volubilissimo e la montagna aspra della Sibilla che commossero, ancor fanciullo, il poeta a me fra tutti carissimo”: Giacomo Leopardi.

Ma come cogliere lo spirito di Tucci? Come far nostro il suo metodo, derivante da una felice commistione di vita pratica vissuta ad alture impensabili da praticare normalmente – quelle del Tibet e dell’Himalaya – e di studio certosino? Sono quanto mai convinto che non vi sia viatico migliore del testo di una conferenza che l’orientalista tenne nel ’56 al Club Campeggiatori Romani: Vita nomade.

“Sempre mi è restato per questo amore dei luoghi aperti e dei vasti orizzonti un senso d’uggia e di fastidio per la casa; la quale a me è sempre apparsa come il punto di convergenza di tutte le limitazioni e fastidi e noie di cui quell’accidiosissima cosa che diciamo civiltà sempre più ci preme e intristisce”. Passo illuminante che in medias res ci consente di familiarizzare con l’anima di Tucci: uomo mai incline alle consuetudini della vita in comune, non propenso ad adottare atteggiamenti di convenienza così rinunciando ad una sincerità di opinione verso uomini e fatti che gli si presentavano innanzi.

È, probabilmente, a causa di questo aspetto caratteriale che coloro che ebbero fortuna di avvicinarlo, sempre nutrirono per lui un sentimento a metà via tra la devozione e il timor reverenziale.

“Tucci professore – racconta una testimonianza – non era minimamente interessato a quello che noi dicevamo, mentre chiedeva la massima attenzione a quelle poche frasi che ci rivolgeva”. Contraddittorio atteggiamento – è indubitabile –, ma che si può meglio comprendere ripercorrendo i viaggi che il grande studioso fece nel Tibet, con a seguito una carovana e tende da piantare ad ogni tappa, in cerca di reperti artistici e documenti scritti a testimoniare le grandi tradizioni delle filosofie e religioni d’Oriente.

Fra quelle genti, così diffidenti all’inizio ma poi sincere, accoglienti e ospitali, Giuseppe Tucci si sentiva a suo agio più che fra colleghi o studenti. Esperienze di vita più schiette, meno distanti da un sentimento metafisico che egli, per tutta l’esistenza, ha sempre badato a coltivare e proteggere.

Essenza dell’uomo, per Tucci, non era l’esser-ci heideggeriano. Bensì il perpetuo viaggiare, il mai sostare – fisicamente e metaforicamente – in medesimi luoghi. Guai nutrire sempre identiche convinzioni, idee o punti di vista! “Ecco perché i ricordi più belli della mia vita sono quelli delle mie spedizioni, forse perché alla sorpresa delle scoperte è commisto quel ritorno alle origini: ed anche il ritrovarsi fra mezzo un’umanità più semplice, più dolce, meno disposta all’offesa o all’inganno… qualche volta, sulle prime, ostile, perché sospettosa dello straniero, dei suoi modi, delle sue intenzioni; delle sue stranezze e soprattutto della sua abituale mancanza di rispetto per le tradizioni, i culti, gli dei suoi”.

Poche parole, chiare, che ci aiutano a comprendere da cos’era dettata quella parvenza di diffidenza di Tucci. Dopo tutto, chi è salito sul Kailasa, la vetta più alta e per questo soprannominata “il Tetto del mondo” vede nitidamente molte cose agli altri destinate a restare oscure per sempre.

Sicché rileggere Vita nomade di Tucci non solo può aiutare l’uomo contemporaneo – spesso così discinto e banale – a conoscere una personalità da tesoreggiare e prendere ad esemplo, ma anche a far proprio un messaggio che, fuor di metafora, può costituire una salvifica via di fuga verso quanto ci ottunde e soffoca.

Eccolo: “Invitiamo dunque i giovani alla vita del campeggio all’aria aperta, perché essi guadagnino quanto perdono nella vita cittadina: non dico in salute ma in spirito. Torniamo alla campagna e ritroveremo nella sua chiarità e sincerità l’uomo perduto; quell’uomo che mai dimentica la tradizione in cui fu nutrito perché l’ha quasi raccolta con il sangue dei suoi padri, e ne vive e se ne alimenta, ma si spoglia di tutto il caduco, delle labili architetture nelle quali la storia ed i tempi ci concludono e ci imprigionano; riscattiamo quel fanciullo che trepido o stupito può ancora abbandonarsi nel grembo della Gran Madre, di quella Gran Madre Natura che gli indiani, gran maestri di vita, invocavano ed invocano ancora come la sorgente benigna e tremenda della vita e della morte”.   

pierlu83

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