-di PIERLUIGI PIETRICOLA-
Nell’ultimo articolo ho voluto richiamare la grande lezione di giornalismo di Giampaolo Pansa. In quell’occasione, ho accennato al suo ultimo libro. Ebbene, stavolta voglio parlarne in modo più approfondito. Quel fascista di Pansa non è solo un volume autobiografico. Lo definirei, piuttosto, un bilancio di più di sedici anni di discussioni, dibattiti, confronti più o meno aspri e più o meno pacati su di un libro che al suo apparire divenne immediatamente leggendario: Il sangue dei vinti. Era il 2003. A quel tempo, Berlusconi era al governo e all’apice della sua popolarità e del suo potere. In modo inaspettato, Giampaolo Pansa – autorevole e prestigiosa firma del giornalismo e della cultura del nostro Paese – invitò le persone a guardare il cosiddetto lato nascosto della luna. In altri termini, l’ombra di cui nessuno storico hai mai discorso o trattato in maniera diretta e specifica. Argomento che si può riassumere così: cosa accadde, in Italia, agli sconfitti dopo il 25 aprile 1945 e fino al ‘46? Si sa che la storia è scritta dai vincitori. Ma questo non può, né deve essere, motivo di mettere a tacere per sempre la voce di chi ha perso. Anche costoro, dopo tutto, hanno diritto di esprimere ciò che pensano. Anche loro hanno fatto parte di un momento storico. Ne sono stati testimoni tanto quanto gli altri. E quindi perché non arricchire il racconto del nostro passato prossimo della loro testimonianza? Il sangue dei vinti volle restituire il diritto di parola a chi ne fu ingiustamente privato. Azione semplice, di giustizia. Che, però, scatenò le reazioni più violente. Contro Pansa vennero mosse accuse ingiuste: che fosse diventato un voltagabbana per un suo tornaconto personale. Che quanto scritto nel Sangue dei vinti fosse frutto d’invenzione dell’autore o, nei casi migliori, insieme di fatti noti privi di rilevanza storica, buoni solo a gettare fango su un momento glorioso come quello della Resistenza. Il discorso di Pansa, per la verità, nelle intenzioni e nei fatti era d’altra tempra. Lo si potrebbe riassumere così: senza nulla togliere di buono e onorevole alla guerra combattuta dai partigiani, è giusto sapere che successero cose di cui non si può né si deve perdere memoria. Aspetto che non inficia affatto la bontà di un momento storico. Semmai, contribuisce a sottrarre quest’ultimo da quell’aura di purezza inverosimile di cui lo hanno ammantato migliaia di pagine di studiosi faziosi. Di questo, delle reazioni positive e negative che suscitò il Sangue dei vinti e di come l’autore le visse – direttamente e attraverso la testimonianza di persone a lui vicine – parla Quel fascista di Pansa. Volume autobiografico e di analisi storico-critica su un periodo di vita personale e professionale, questo libro intende anche porre l’attenzione su un altro aspetto. Si tratta di un particolare che viene chiarito dall’autore nella bandella: “Raccomando agli eventuali lettori di considerarlo soprattutto un ritratto del mondo di oggi dove i faziosi e i pagliacci siedono accanto a persone serie che hanno dimostrato di avere fiducia in me narrandomi le loro storie”. Poche righe, quelle appena citate, dove emerge il ruolo che il giornalista dovrebbe avere nella società secondo Pansa: qualcuno di cui avere fiducia. Una persona alla quale affidare la nostra memoria. Alla quale raccontare i nostri dubbi e le nostre speranze, affinché possano trasformarsi in una testimonianza di più ampio respiro raccontata onestamente (a prescindere dalle rispettive posizioni ideologiche o di fede). Questo, e non altro, è il giornalismo. Possiamo dire che oggi sia ancora così?