Finanziamenti alternativi del nuovo welfare

– di FRANCO CAVALLARI –

Il problema del finanziamento del welfare si poneva in Italia con accenti allarmanti già nel periodo delle ricorrenti contrazioni economiche intervenute negli anni ‘70 dopo una fase di sviluppo ininterrotto durata circa un ventennio. La due crisi petrolifere, quella del 1973,-che quadruplicò da 3 a 12 dollari per barile il prezzo del greggio e quella del 1979 in cui detto prezzo aumentò da 12 a 36 dollari, arrestarono bruscamente il ciclo economico favorevole con una crisi internazionale molto profonda e duratura.

Nella fase dello sviluppo, l’Italia aveva faticosamente affrontato il primo gradino del welfare, assestando il sistema pensionistico, cui furono dedicate in prospettiva consistenti risorse. Nelle ristrettezze della crisi fu giocoforza congelare il secondo step, (la fornitura ai cittadini di servizi sociali efficaci), trascinando le carenze del proprio welfare fino alle soglie dei grandi sconvolgimenti economici del 2008.

In tempi più recenti, gli effetti della lunga crisi strutturale che ha attraversato il nostro Paese nello scorso decennio hanno determinato un abbassamento del reddito disponibile delle famiglie che ha reso più evidente e drammatica l’assenza di servizi sociali nelle periferie economiche ed ai livelli meno elevati della classe lavoratrice. E non è un caso che su questi temi il Partito Democratico, poco attento per molti anni all’evolversi della situazione, abbia smarrito il contatto con la base e perso il consenso dei ceti meno abbienti, subendo un tracollo verticale dei voti alle elezioni politiche del 2018.

In ogni caso, attualmente l’Italia impiega nella spesa sociale propriamente detta”1 l’11,9% del PIL, a fronte del 12,1% della Spagna, del 14,3% della Germania, del 15,1% del Belgio e del 16% della Francia e non può, quindi, considerarsi allineata ai livelli dei suoi partners europei. Al contrario, per quanto riguarda i “cash tranfers” (in sostanza le pensioni), il dato italiano (16,8%) è praticamente in linea rispetto ai Paesi al vertice della classifica europea, quali l’Austria (17,5%) e la Francia (17,1%); ma queste prestazioni si disperdono in mille rivoli, un numero enorme di pensioni (circa 21 milioni), distribuite a circa 16 milioni di aventi diritto, con una media di circa 850 euro lordi mensili, ma con una distribuzione che presenta una grande divaricazione tra gli importi minimi e quelli più elevati.

La componente M5S dell’attuale Governo, erede della pesante situazione dei servizi sociali e di un vertiginoso aumento della povertà, ha cercato di portare avanti la sua “proposta-bandiera”, il Reddito di cittadinanza, un istituto volto ad alleviare questo vuoto. Non è superfluo ricordare che questa proposta, sostanzialmente valida quanto all’esigenza sociale che ne è alla base, presentava già nella sua formulazione originaria, quella elaborata nel periodo dell’opposizione del M5S, una serie di profonde criticità nella sua strutturazione, tali comunque da inficiarne la realizzabilità. Per esempio, l’insostenibilità finanziaria, con uno stanziamento di 17 Mrd, invece dei 35-40 Mrd necessari, per fronteggiare le difficoltà di 10 milioni di poveri relativi; ancora, l’ambizione di dare soluzione contemporanea alla povertà e alla disoccupazione, con la pretesa di creare posti di lavoro in un deserto produttivo come il Mezzogiorno attraverso il miglioramento funzionale dei Centri per l’impiego.

Venendo ai giorni nostri, il Decreto del Governo in materia viene a più miti consigli e si occupa solo della povertà assoluta di circa 5 milioni di cittadini, di cui più di 3 milioni di disoccupati, stanziando per il 2019 7,1 Mrd (8,1 Mrd per il 2020) per fronteggiare il problema. Appare evidente l’insufficienza dello stanziamento in rapporto alle dimensioni del problema (con una media di risorse disponibili per ognuno dei 5 milioni di assistiti di circa 160 euro al mese), appena sufficienti ad assistere con i redditi promessi circa 540mila famiglie (ossia non più di un milione e ottocentomila persone); mettendo in disparte anche i difetti sopra accennati della proposta originaria, bisogna riconoscere che per la prima volta in Italia si destina alla lotta alla povertà un volume di risorse comunque ragguardevole.

Ma la chiave di lettura del provvedimento, la sua valenza di strumento efficace nella lotta alla povertà e nella riduzione delle diseguaglianze risiede essenzialmente nella forma di finanziamento delle risorse dedicate. Gli stanziamenti necessari per questo tipo di intervento dispiegano appieno la loro efficacia sociale solo laddove le risorse finanziarie a copertura provengano dalla tassazione.

Nel caso in cui la misura fosse finanziata dalla tassazione progressiva, ne deriverebbe, oltre ad un effetto di riequilibrio nella distribuzione del reddito utile alla coesione sociale, anche un benefico impulso alla crescita dell’economia. In effetti, il prelievo tributario improntato a progressività sottrae risorse a livelli di reddito aventi una propensione marginale al consumo molto bassa, distribuendole a soggetti che hanno una forte propensione al consumo; senza scomodare il teorema di Haavelmo 2, si evince chiaramente che, a parità di disavanzo del bilancio pubblico, dalla relativa spesa si sviluppa un moltiplicatore del reddito molto elevato.

Meno efficace diviene il provvedimento, ma pur sempre positivo è l’effetto riequilibratore, laddove le risorse provengano da un prelievo fiscale regressivo, come quello lineare eguale per tutti, ad esempio da un aumento dell’IVA. In questo caso le risorse sono prelevate da tutta la comunità e quindi da soggetti che presentano, dal più ricco al più povero, una scala crescente di propensione al consumo. Si tratta in sostanza di mettere a confronto due differenziali di propensione media al consumo3. Un caso analogo si avrà laddove le risorse del provvedimento provengano da una diminuzione di alcune spese pubbliche aventi scarsa utilità sociale.

Molto diverso è il caso in cui il provvedimento sia finanziato in disavanzo, specie in condizioni in cui l’economia stenta a produrre risorse aggiuntive attraverso la crescita ed in presenza di un debito pubblico di proporzioni critiche, com’è il caso dell’Italia. Il finanziamento in disavanzo di misure sociali pur valide, oltre a scaricare l’onere sulle generazioni future, è in grado di provocare nell’immediato una serie di tensioni sul mercato finanziario i cui effetti negativi sulla crescita potranno in molti casi essere superiori a quelli positivi del moltiplicatore del reddito; finendo così per determinare una diminuzione della crescita e, in definitiva, anche un arretramento delle condizioni sociali dei ceti meno abbienti.

E’ quanto, numeri alla mano, hanno dimostrato nel caso dell’economia italiana alcuni economisti di valore mondiale, tra cui Olivier Blanchard e Geromin Zettelmeyer: secondo le loro analisi, nel caso italiano l’effetto moltiplicatore della spesa addizionale prevista nel bilancio 2019 risulterà inferiore alle conseguenze negative sulla crescita provocate dallo “spiazzamento” finanziario derivante dalla spesa in disavanzo, vale a dire dell’aumento dei tassi di interesse derivante dalle difficoltà di finanziare sul mercato il relativo aumento del debito pubblico. Se la Politica economica non è finanziata correttamente la conseguenza è che il nostro Paese si trova a fronteggiare uno “spread eccessivo” che rappresenta uno deleterio spreco di risorse finanziarie. Situazione completamente diversa sarebbe, naturalmente, quella che contemplasse il finanziamento in disavanzo di spese per investimenti pubblici o a sostegno degli investimenti privati, riconosciute da tutti come strumento foriero di fiducia, in grado di innescare il circuito virtuoso della crescita economica. Situazione completamente diversa sarebbe, naturalmente, quella che finanziasse in disavanzo spese per investimenti pubblici o a sostegno degli investimenti privati, riconosciuta da tutti come foriera di fiducia, in grado di sollecitare il circuito virtuoso della crescita economica.

In definitiva, è molto probabile che le misure di valore sociale contenute nella manovra di bilancio per il 2019, (come il Reddito di cittadinanza e Quota 100), a parte i notevoli “difetti di fabbrica” che rischiano di inficiare il raggiungimento degli obiettivi preposti, finiranno per peggiorare le condizioni dei ceti meno abbienti a causa degli effetti negativi sullo sviluppo economico.

 

1) Le “spese sociali propriamente dette” sono, secondo la definizione dell’OECD, quelle sostenute dall’A.P. per la fornitura dei servizi sociali, quali asili nido, mense comunali, case di riposo per anziani, ecc.

2) Trygve Haavelmo, premio Nobel 1989, sulla scia del pensiero keynesiano, ha formulato un teorema secondo cui un aumento in egual misura di spesa pubblica e prelievo fiscale (vale a dire “a parità di disavanzo”) provoca, a certe condizioni, un aumento della crescita economica di pari importo. Questo postulato si basa sulla circostanza che l’effetto deflazionistico dovuto alle nuove tasse è più che compensato dall’effetto di ampliamento del reddito prodotto dal differenziale tra la propensione al consumo della spesa addizionale e la propensione al consumo delle risorse prelevate dal “risparmio privato ”. 

3) Nel primo caso il differenziale di propensione al consumo tra la media dell’insieme dei soggetti beneficiari, (che è massima) e la media dell’insieme dei soggetti più ricchi (che è minima) è molto elevato e quindi il relativo moltiplicatore del reddito risulterà anch’esso elevato. Nel secondo caso, la differenza tra la propensione al consumo dell’insieme dei soggetti beneficiari (che è massima) e la media dell’insieme di tutti i contribuenti (che è comunque più alta di quella dell’insieme dei soggetti più ricchi) produrrà un differenziale inferiore rispetto a quello del caso precedente. In conseguenza, il moltiplicatore del reddito risulterà inferiore, così come sarà meno incisivo il conseguente riequilibrio delle diseguaglianze.

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