La proposta di riduzione dell’aliquota IRPEF dal 23% al 20%

– di FRANCO CAVALLARI –

Torna in circolazione la proposta di riduzione dal 23 al 20% dell’aliquota applicabile allo scaglione più basso dell’IRPEF, un’ipotesi che riappare periodicamente nel panorama delle ipotesi di sgravio tributario per i contribuenti meno abbienti. Più volte prospettata dalla sinistra, ma anche da altre forze politiche, questa proposta non è stata mai realizzata, sia in ragione delle difficoltà di bilancio, sia a causa della pericolosità politica di metter mano ad un argomento così delicato. Nelle ultime settimane l’idea è stata rilanciata dalla Lega di Salvini, che ha prospettato per il prossimo futuro, invero con non molta decisione, un provvedimento di Governo in tal senso.

Malgrado l’estrema scabrosità dell’argomento, parliamo di un’ipotesi che potrebbe esercitare un certo “appeal” anche ne Movimento 5 stelle e forse, a giudicare dalle proposte passate, incontrerebbe pure il favore di una parte della sinistra; peraltro, parliamo di una misura che avrebbe anche una giustificazione economica in quanto in un clima di stagnazione, la sua realizzazione è suscettibile di aumentare la domanda aggregata, sostenendo categorie di redditi che presentano forte “propensione al consumo”.

Analizzato più da vicino, un provvedimento di questo tipo comporterebbe, però, un inconveniente non trascurabile, un “effetto perverso” di rilevante entità, che ne stravolgerebbe il significato. In realtà, una riduzione dell’aliquota più bassa dell’Irpef dal 23 al 20% implicherebbe un alleggerimento del carico tributario non solo per la classe di reddito fino a 15.000 euro, ma anche per tutte le classi di reddito superiori a detto limite. In realtà, essendo il reddito di ciascun contribuente tassato per “tranche”, a ciascuna delle quali si applica una delle cinque aliquote in vigore, anche tutti i contribuenti con redditi superiori al primo scaglione hanno una quota del loro reddito (quella inferiore a 15.000 euro) tassata al 23%; per cui anche i contribuenti con redditi superiori al primo scaglione beneficerebbero (limitatamente a detta quota) della riduzione del 3%.

L’effetto “indesiderato” dello sgravio non sarebbe così importante a livello di singoli contribuenti, ché parliamo di una riduzione di imposta abbastanza modesta se considerata in proporzione al reddito complessivo del contribuente. Il nodo della questione si palesa quando si affronta il problema dal punto di vista dell’Erario, quando si prende in considerazione l’effetto sulle risorse della Finanza pubblica; le quali subiscono un consistente aggravio dalla vasta dispersione dei fondi, a vantaggio delle categorie di reddito superiori.

Dai calcoli relativi al costo del provvedimento, emerge che la riduzione dal 23 al 20% relativa allo scaglione più basso costerebbe complessivamente all’Erario (in termini di minori entrate) circa 7,5 miliardi di euro; ma di questo importo, soltanto 2,5 Mld di euro complessivi andrebbero a beneficio dei circa 9 milioni di contribuenti della classe di reddito più bassa (con redditi tra 8.150 e 15.000 euro); i restanti 5 Mld di euro andrebbero; ai restanti 22,5 milioni di contribuenti con reddito superiore a 15.000 euro. In sostanza, solo 1/3 delle risorse in gioco servirebbero allo scopo di ridurre la pressione fiscale sui redditi dei meno abbienti, mentre i restanti 2/3 andrebbero dispersi in benefici alle classi più ricche, producendo un effetto di segno opposto allo scopo del provvedimento.

Queste implicazioni sull’impiego delle risorse pubbliche non sono state mai abbastanza considerate, dai proponenti le misure in questione, che, invece, sono tenuti a dare conto anche dell’utile impiego delle risorse pubbliche, specie in periodi di difficoltà di bilancio come l’attuale. In un periodo in cui si parla molto di “costi/benefici” sarebbe quanto mai opportuno che questi effetti, non del tutto palesi al grande pubblico, fossero ben evidenziati dai “policy makers” ed entrassero a pieno titolo nel dibattito di politica economica. Nelle circostanze attuali, non può essere ritenuto superfluo tornare a focalizzare un principio di massima, già descritto in questo spazio qualche anno fa, vale a dire che il metodo della progressività per scaglioni non si presta a ritocchi in diminuzione delle aliquote, specialmente per i redditi più bassi, in quanto trascina con se importanti effetti regressivi, extra costi di considerevole entità rappresentati dalla dispersione di imponenti risorse pubbliche.

Quanto all’opportunità di mantenere un certo grado di progressività, non va dimenticato che l’IRPEF è l’unica imposta del sistema tributario italiano che risponde al dettato dell’art. 53 della Costituzione, secondo cui il sistema tributario italiano deve essere improntato a criteri di progressività. Da sottolineare che la scala della progressività di questa imposta è stata nel corso degli anni abbassata enormemente, passando dai 32 scaglioni originari, con aliquote marginali dal 10 al 72% del 1973, ai 5 scaglioni attuali, che contemplano aliquote marginali dal 23 al 43%.

E’ ormai chiaro che la squilibrata distribuzione dei redditi frutto del libero gioco della concorrenza, non può essere corretta in modo significativo attraverso la tassazione progressiva, la cui azione è in gran parte vanificata dalla “traslazione a cascata” del carico tributario a vantaggio delle categorie di soggetti socialmente più forti. Ma la dottrina economica prevalente ha dimostrato che il libero mercato, lasciato a se stesso, genera un livello inaccettabile di diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, come dimostrato dagli aumenti registrati negli ultimi 20 anni nei paesi occidentali (specialmente negli USA, in Gran Bretagna e in Italia) gli scandalosi indici di diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e della ricchezza testimoniati dai ponderosi studi in materia dell’OECD.

In questo quadro, molti eminenti economisti hanno dimostrato che un’efficace lotta alle eccessive diseguaglianze non può essere portata avanti se non agendo sulla “distribuzione primaria” dei redditi, vale a dire sulla distribuzione a monte della tassazione. E’ stato comunque evidenziato che la progressività1, con tutti i suoi difetti 8quali l’inefficacia redistributiva e la distorsione nell’allocazione delle risorse), conserva una sua importante funzione sociale, quanto meno calmieratrice degli eccessi di concentrazione dei redditi derivanti dal libero mercato globalizzato.

Con riferimento al livello dell’imposizione, attualmente non appare così immediata la percezione dell’aliquota media applicata a ciascun contribuente. Ad esempio, l’imposta personale sul reddito dei contribuenti con redditi di 100.000 euro l’anno colpisce l’ultima “tranche” di detto reddito (quella da 75.000 a 100.000 euro) con l’aliquota marginale del 43%. Ma se si tiene conto che le quote del suo reddito inferiori a 75.000 sono colpite con aliquote più basse, l’aliquota media effettiva sui 100.000 euro risulta del 36%.

In ogni caso, l’eventuale riforma del prelievo fiscale sul reddito, dovrebbe partire dalla considerazione, già esposta in precedenza, che la “progressività per scaglioni” non consente la manovrabilità al ribasso delle aliquote per i redditi più bassi, in quanto trascina con se importanti effetti collaterali. Al riguardo, sarebbe utile che in occasione della riforma della tassazione personale sul reddito fosse adottata una scala della progressività fondata sulle aliquote medie, la cosiddetta “progressività per classi”, in vigore in Germania e nel Canton Ticino. E’ un metodo in cui la progressività si esprime attraverso una curva continua delle aliquote medie, in modo che a ciascun contribuente sia dato di sapere direttamente l’aliquota media applicabile al proprio reddito, rendendo possibili, all’occorrenza, manovre di modifica nella scala della progressività in favore dei redditi più bassi, senza dover subire onerose dispersioni di risorse.

1) Nel contesto dell’economia italiana attuale, squilibrata da quasi un trentennio dal crescente processo di ampliamento delle differenze di reddito, la “flat tax” proposta dalla destra economica, non farebbe che accentuare la concentrazione dei redditi.

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