Il giustizialismo: un Giano Bifronte?

– di EDOARDO CRISAFULLI –

La recente votazione sulla piattaforma Rousseau (processo sì, processo no a Salvini) è illuminante. Ho sempre pensato che il giustizialismo fosse una nebulosa abitata da replicanti che comunicano in una sorta di esperanto giuridico per iniziati, una neolingua orwelliana infarcita di dogmi (i magistrati sono i cavalieri dell’Apocalisse) e di stereotipi (i politici sono corrotti fin nel midollo) equivalenti a massime evangeliche. Non è così. E non è neppure vero che i giustizialisti appartengano tutti a una stessa comunità di destino, cementata da una militanza fideistica senza incrinature e distinguo, il cui motto è la politica si purifica e rigenera solo per via giudiziaria. Premetto che qui m’interessano solo i giustizialisti arciconvinti; degli opportunisti non mi curo, ma guardo e passo. Ci saranno sempre personaggi equivoci pronti a saltare sul carro di battaglia quando il nemico di turno subisce l’ordalia giudiziaria, salvo divenire garantisti di ferro allorché l’avviso di garanzia capita a loro, fra capo e collo.

Il giustizialismo assomiglia di più a un Giano Bifronte che, osservato da vicino, ha due volti completamenti diversi: uno è arrabbiato, ma sincero. È quello di chi crede davvero nel primato morale e politico della magistratura. L’altro è feroce, nonché falso e bugiardo: la professione di fede nel partito dei giudici maschera una volontà smisurata di potenza. La quale, gratta gratta, esprime la volontà di sottomettere la magistratura alla politica. È il leader-Messia che realizzerà la palingenesi.

L’articolo di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano “Movimento 5Stalle” (19 febbraio 2019) mi ha aperto gli occhi. Nella cultura giustizialista e forcaiola, esistono due scuole di pensiero diametralmente opposte. La prima la definirei legalista, la seconda è senza dubbio totalitaria-giacobina. Fra queste due scuole non è possibile gettare alcun ponte, essendo l’una la negazione dell’altra. Non è facile accorgersene perché gli adepti di entrambe condividono apparentemente linguaggio, metodi di lotta e finalità politiche. Non aiuta a far chiarezza il fatto che i giustizialisti avanzino tutti assieme, come la testuggine romana. Ci facciamo traviare dal furore, che li accomuna, e sorvoliamo sulla visione ideologica, che li divide. Viene in mente il mitico saggio “Vangelo socialista”, (scritto a due mani da Craxi e Luciano Pellicani), di cui nel 2018 è ricorso il quarantennale. Anche i riformisti e i rivoluzionari, che se le davano di santa ragione, qualcosa in comune l’avevano: l’ispirazione ideale, i richiami alla cultura marxista, la volontà di battersi per l’emancipazione operaia e la giustizia sociale ecc. Cammin facendo, si è scoperto che la pensavano in maniera radicalmente diversa. E non mi riferisco a quisquilie, bensì a temi esistenziali quali la violenza e la libertà.

Cosa è essenziale per definire la tua identità e i tuoi valori? Per i riformisti e i menscevichi prevale la libertà democratica e l’umanesimo; per i rivoluzionari e i bolscevichi l’abolizione della proprietà privata e il culto della violenza rigeneratrice. A questo punto non c’è richiamo a Marx che tenga: il collante ideologico è di pessima qualità. Il che spiega le scissioni e le laceranti guerre civili a sinistra. La morale (che è anche una legge di ferro della politica) è semplice: se ciò che ti accomuna al tuo alleato è “inessenziale” mentre ciò che ti divide da lui è essenziale, ti sei scelto un compagno di strada pericoloso. Prima o poi dovrai separartene. La biforcazione è là sull’orizzonte.

In sintesi: l’armata Brancaleone dei giustizialisti sta per sbattere il grugno, scoppierà una bella baruffa nella mal assortita famiglia giustizialista. Cerchiamo di capire perché. La corrente legalista idealizza la magistratura, a cui attribuisce virtù salvifiche o, più sensatamente, una funzione super partes di regolazione del sistema democratico. Il potere giudiziario deve controllare la legittimità di ogni atto governativo di una certa rilevanza (il caso della Diciotti rientra a pennello). Non è ingerenza, è un preciso diritto-dovere politico del giudice. L’interesse nazionale rientra a pieno titolo nella sua giurisdizione. Posto che la politica è una fogna a cielo aperto, la magistratura deve svolgere un ruolo “supplente” di bonifica, a salvaguardia della nazione. Altrimenti scoppierà la peste bubbonica. Se da vent’anni abbiamo una giustizia ipertrofica, lo dobbiamo al fatto che questa visione è diventata il nuovo senso comune. Abbiamo qui, in nuce, lo schema della repubblica giudiziaria.

Il giustizialista che crede fanaticamente nel partito dei giudici è – costituzionalmente parlando – in torto. Il sistema liberaldemocratico si regge sull’equilibrio o sull’armonia dei poteri (rileggersi Montesquieu, prego). Il potere che esorbita sistematicamente dalle sue funzioni, imbrigliando gli altri poteri, non addomestica il cavallo (che si presume) imbizzarrito: lo sfianca finché quello non tracolla, esausto. La crisi che ne deriva ha esiti imprevedibili. Se è il potere esecutivo a debordare, quello giudiziario perde la sua indipendenza. Se è la magistratura a travalicare, il governo s’inceppa. Il terrore dell’avviso di garanzia è il più efficace disincentivo ad agire nell’interesse dei cittadini-elettori. In entrambi i casi, gli effetti sono tossici: attecchiscono le spore illiberali, dilagano l’antipolitica e l’astensionismo. Tutti afferrano la pericolosità di uno stato di cose in cui il potere giudiziario è la cinghia di trasmissione del governo. Ciò avviene, di regola, nelle dittature. Pochi ahimè capiscono la gravità di una democrazia azzoppata, nella quale i rappresentanti del popolo vanno in processione dai magistrati cospargendosi il capo di cenere. C’è un paradosso che salta agli occhi: quanto più la corruzione è diffusa, tanto più occorre un governo forte e autorevole che sappia estirparla. La tutela asfissiante da parte della magistratura indebolisce l’unico attore in grado di riformare la società: il governo democraticamente eletto.

Detto ciò, la scuola legalista, può essere ricondotta nel perimetro della Costituzione. Per la semplice ragione che i suoi adepti sono figli ribelli di Montesquieu, ovvero “democratici che sbagliano”: cittadini in buona fede che, pur parteggiando per un ingranaggio o una rotellina, hanno a cuore il funzionamento dell’orologio. Bisogna riconoscere a questi giustizialisti una certa onestà intellettuale. Credono nell’uso politico della giustizia, sì, ma non sono ipocriti. Sferzano tutti i politici, senza pietà e senza distinzioni. Provando un timore reverenziale per i magistrati, rispettano le sentenze, sempre e comunque. Questo atteggiamento acritico può condurre a guasti. Ma abbiamo a che fare con un peccato veniale: la fiducia eccessiva nei confronti di un potere dello Stato che è costituzionalmente legittimo. I legalisti assomigliano a cattolici modernisti, che, pur critici verso la Chiesa e i suoi abusi, non si sognerebbero mai di mettere in discussione la funzione del papa. Desiderano solo una Chiesa pura, spirituale.

Non dimentichiamo che la fiducia cieca nella magistratura sgorga a fiotti dalla sfiducia radicale nei partiti, nelle leadership politiche, nel Parlamento (sotto accusa anche gli elettori, che non sanno scegliersi rappresentanti dignitosi e adeguati al ruolo). Quella sfiducia è il frutto avvelenato dell’indignazione permanente, esibita, gridata, di fronte a una situazione effettivamente scandalosa: il proliferare della corruzione, degli abusi di potere, dell’illegalità.

Di tutt’altra pasta son fatti i membri invasati della scuola totalitaria-giacobina, la quale, fra le due, è di gran lunga la più insidiosa. Questi ultimi, pur muovendo dalle medesime premesse (difesa accalorata della magistratura militante), si ispirano a una ideologia antidemocratica, sovversiva, illiberale – il peccato, qui, è mortale. Predicano molto bene, ma razzolano malissimo. Gridano ipocritamente contro i disegni occulti della casta. Eppure perseguono scientemente (senza farlo trapelare) proprio ciò che condannano con voce rauca e occhi spiritati: la sottomissione dei giudici alla politica. Che altro dovremmo aspettarci dai figli irrequieti di Robespierre? Il potere giudiziario è il braccio armato della politica giustiziera – non è un organo indipendente, è un potenziale alleato nella lotta politica il cui fine è liquidare i politici ladri e cattivi (gli altri). Ecco il ragionamento: i giudici ci vanno a genio finché si scagliano come una testa d’ariete contro il sistema putrescente e corrotto; non li abbiamo forse arruolati noi al servizio della causa rivoluzionaria, anticasta? Se nel mirino finiamo noi, i duri e puri, il discorso cambia. Guai se il magistrato attenua la sua carica rivoluzionaria-eversiva o diviene addirittura reazionario, a quel punto va rimesso in riga dall’unico potere indiscutibile e assoluto: il popolo. Il quale, non potendo materializzarsi in blocco, affida i propri destini non già alla turpe democrazia rappresentativa (gli scranni in Parlamento si occupano perché ci sono, ma se ne potrebbe tranquillamente fare a meno) bensì al leader messianico e all’avanguardia leninista che lo attornia. È il movimento politico che incarna la missione salvifica. Ecco il senso della democrazia radicale, e diretta. Così è avvenuto per l’appunto nel caso della votazione sul processo a Salvini: poche migliaia di militanti – guidati dall’Unto – hanno deciso per tutto il popolo.

Va riconosciuta a Travaglio una qualità rara in Italia: la coerenza. Lui appartiene (credo senza rendersene conto) alla prima scuola. Ciò che scrive in questa occasione andrebbe affisso nelle redazioni di tutti i giornali: “quando si chiede al ‘popolo’ di pronunciarsi non su questioni di principio, ma su casi penali dei quali non sa nulla, la risposta che arriva di solito è sbagliata”. È, questa, la difesa più efficace che io abbia letto negli ultimi tempi sull’efficacia e sulla correttezza dell’equo processo, che soltanto i magistrati di carriera possono gestire. Pare bizzarro, viste le intemperanze del personaggio, ma qui brilla la stella del garantismo. Impeccabile la critica nei confronti dei pentastellati “governativi” contrari al processo: “siccome ora governiamo noi e la Lega, decidiamo noi chi va processato chi no, alla faccia dei giudici politicizzati che vorrebbero giudicare le nostre scelte unanimi per rovesciare il governo.” Il fustigatore del Fatto Quotidiano, però, è avvolto nella nebbia: scorge solo una minaccia: il “virus del berlusconismo” che contaminerebbe i suoi ormai ex compagni di merende. Si avvinghiano alle poltrone, ecco perché tradiscono l’ideale della giustizia assoluta; noi non dovremmo fare sconti al potente di turno! Giacché è fuori di dubbio che il giustizialismo è uno e trino. Errore: i giustizialisti di questa seconda risma hanno un’impostazione diversa dalla tua; ma, esattamente come te, sono idealisti tutti d’un pezzo. Nient’affatto opportunisti, agiscono logicamente secondo i dettami della loro ideologia. Il caso Diciotti non è stato presentato in “modo menzognero e truffaldino” sulla piattaforma Rousseau. È tutto politically correct, in piena sintonia con la visione totalitaria-giacobina. Considerate certe premesse ideologiche, è legittimo che “il sequestro di persona” sia “spacciato “per un banale ritardo nello sbarco”: ciò che è penalmente rilevante lo decide il governo del popolo. Guai se i grillini non invocassero un “salvacondotto per l’interesse dello Stato”: ciò che è politicamente giusto lo stabilisce il governo del popolo. “Vuolsì così colà dove si puote ciò che si vuole.”

L’unica politica vera e pura è quella antisistema, condotta dai populisti contro il cancro della corruzione. Se i magistrati ci stanno, bene. Se si chiamano fuori, diventano anche loro nemici del popolo. La nobiltà della lotta giustifica qualsiasi azione, non ci sono limiti né remore. Il rivoluzionario è al di sopra delle leggi. Ed è onesto per definizione. Robespierre, l’Incorruttibile, non rubò mai un soldo, si dedicava anima e corpo alla causa. Nel nome del superiore interesse nazionale fece ruzzolare migliaia di teste. Il rivoluzionario Filippo Buonarroti, affascinato da quella figura, ne esaltava le “grandi riforme” volte a sradicare due mali gravissimi, “la cupidigia borghese e l’immoralità degli uomini pubblici” – tutto beninteso in nome “dell’uguaglianza e della repubblica popolare”. Robespierre – un seguace entusiasta di Rousseau – chiarì la natura di una concezione, il giacobinismo, che è assoluta, ovvero sciolta da ogni vincolo etico. Reazionari, non frapponetevi alla nostra sete di giustizia! Siamo totalmente liberi, non siamo schiavi dell’ingordigia. “La libertà consiste nell’obbedire alle leggi che ci si è date e la servitù nell’essere costretti a sottomettersi ad una volontà estranea.” Io, leader indiscusso, riconosco una sola autorità: la mia coscienza, la quale è peraltro in sintonia con le mille e più coscienze dei miei seguaci. Io rappresento, appunto, il governo del popolo. L’Incorruttibile giammai avrebbe tollerato la volontà estranea rappresentata da una magistratura indipendente.

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

Rispondi