Latinoamerica: tra sogno, illusione e tragedia

– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –

Latinoamerica, il continente del sogno rivoluzionario (dopo la Russia di Vladimir Illich Lenin e la Cuba di Fidel Castro a incarnare per molti decenni e militanti comunisti l’autentico ideale rivoluzionario), della democrazia socialista tradita e repressa nel sangue nel Cile di Salvador Allende che accanto a Ernesto Guevara detto Che, siede tra la galleria di eroi della sinistra che ha effettivamente creduto, anche se per pochi lustri, di poter cambiare il mondo, delle tante e fragili democrazie continentali rovesciate in feroci apparati totalitari come Guatemala, Brasile, Argentina, Paraguay, Perù. Delle illusioni di uguaglianza, di giustizia sociale e totale indipendenza politica del gigante norteamericano che il sandinismo in Nicaragua e il chavismo in Venezuela portavano con sé come effettiva promessa di cambiamento. Ma se il primo era ancora figlio del XX° secolo e dello spirito rivoluzionario che animò la Cuba del 1959 con il rovesciamento della dittatura di Anastasio Somoza, il secondo nasceva in un mondo che già procedeva verso la globalizzazione, quindi il rifarsi allo spirito bolivariano dell’unione degli stati latinoamericani (senza tuttavia la lettura critica dell’opera di Josè Martì) sembrò ancora una volta alternativo all’ultraliberismo delle multinazionali.

Latinoamerica, il “continente desaparecido” secondo una definizione dello scrittore uruguayano Eduardo Galeano, autore del fondamentale Las venas abiertas de America Latina, subito fatta propria dall’italiano Gianni Minà, che la usò per intitolare una collana editoriale dedicata appunto a quel continente. Ma che cosa s’intendeva esprimere, in realtà, con l’aggettivo desaparecido? Il fatto che l’interesse verso quell’utopia politica, le sue storie, perfino i suoi scrittori e, in altre parole, il suo mito, in Europa ma anche nella stessa America, era andato via via scemando. La moda dei grandi ideali rivoluzionari e di tutto ciò che li accompagnava era definitivamente tramontata. La Cuba di Fidel Castro mostrava tutte le sue falle soprattutto nella gestione del potere e nella censura, il Nicaragua di Ortega, un tempo acclamato dal popolo, rieletto nuovamente presidente per ben tre volte dopo la precedente sconfitta con la liberale Violeta Chamorro, instaurerà un regime di tipo autoritario, duro con le opposizioni e noncurante dei reali bisogni del popolo. Ci si è spesso interrogati sul perché la parte migliore del sandinismo, quella rappresentata   dall’allora vice presidente Sergio Ramirez e dai fratelli Fernando ed Ernesto Cardenal, sia uscita sconfitta dal conflitto interno e non abbia più saputo proporre un’alternativa politica nello spirito originario. Lo stesso ci si chiede oggi di fronte al disastro venezuelano che è insieme debacle politica e tragedia umanitaria di un intero popolo. Possibile che non vi sia un modo diverso di affrontare il problema di quanto sta avvenendo nel paese caraibico? Possibile, inoltre, che come al solito, siamo chiamati a dare una risposta netta, manichea, a un aut aut politicamente e dialetticamente inaccettabile, ossia o si vuole essere con Juan Guaidò o con Nicolas Maduro?

Levando dal campo d’analisi qualsiasi partigianeria (che ci vedrebbe prendere posizione sulla base di elementi pregressi, ad esempio, una certa radicata ostilità verso la politica nordamericana in Sudamerica e in particolare quella dell’attuale presidente Trump), possiamo dire che se da una parte il regime di Maduro, nascondendosi dietro le promesse non mantenute del chavismo e l’ombra del suo leader storico, ha dilapidato parte delle risorse economiche derivate dal petrolio (PDVSA), peraltro favorendo parenti, uomini del governo e militari, facendo precipitare il paese nel disastro economico, dall’altra, assistiamo al tentativo invero piuttosto cinico, di sfruttare lo stato drammatico delle cose per cancellare una volta per tutte il chavismo (che il regista e attivista venezuelano Gustavo Tovar Arrojo ha definito con enfasi retorica, in un recente film documentario come “peste del XXI° secolo”) nella sua totalità, ossia non solo negli esiti, ma anche nei principi fondativi, con l’aiuto incondizionato degli Stati Uniti, grandi esperti nell’appoggiare violenti cambi di regime. Ma questa volta si tratta del sostegno a un politico che si definisce liberale (Guadiò), rispetto a un presunto nuovo caudillo (Maduro) e questo non può non generare confusione e imbarazzo anche in una sinistra che, invece, nel 1973, non ebbe esitazione a schierarsi con il Frente Popular di Salvador Allende. Ma quella era davvero un’altra storia. Che cosa abbiamo o vediamo realmente sullo sfondo del continente di Simon Bolivar e di Josè Martì? Un continente che dalla dittatura intesa come comune prassi politica in molti paesi ha conosciuto nell’ultima fase del ‘900 non solo la transizione verso la democrazia liberale, ma anche il proprio superamento verso governi d’ispirazione socialista come nella Bolivia di Evo Morales, nell’Ecuador di Rafael Correa, nell’Argentina di Cristina Fernandez de Kirchner, nell’Uruguay dell’ex tupamaro Josè Alberto Mujica e nel Brasile di Luiz Ignacio Lula da Silva e di Dilma Rousseff. Fu in quella delicata fase politica che Latinoamerica smise di essere il continente desaparecido, per diventare il luogo del possibile cambiamento. Lo stesso chavismo, alle sue origini, destò interesse e trovò sostegno in molti osservatori, politici e intellettuali stranieri. Era nato, forse, un nuovo tipo di socialismo dal volto umano (per usare un termine coniato nella Cecoslovacchia del ‘68) e di cui in fondo, avevamo già avuto prova tangibile nel Cile di Allende? Una nuova transizione politica avrebbe ancora una volta disatteso le speranze della sinistra: la sconfitta del partito del popolo e la caduta di Lula, in carcere in seguito all’accusa di corruzione e il ritorno di alcuni paesi come l’Argentina, il Cile a governi di chiara matrice liberista o, caso ancor più clamoroso, l’insediamento a Brasilia nel 2019, di un nuovo presidente razzista, omofobo e dichiaratamente fascista, Jair Bolsonaro, eletto democraticamente in un paese che non ha ancora dimenticato l’uomo che si propose come alternativa politica credibile per tutto il popolo brasiliano. Ma già la democrazia liberale, più rivela la propria fragilità, più tende a mostrarsi come unica opzione possibile e ragionevole. Eppure si continua a non voler comprendere la lezione della storia, secondo cui tanti Bolsonaro legittimamente eletti (e ve ne sono già molti anche in Europa!), possano un giorno diventare tanti piccoli Adolf Hitler del XXI° secolo perché semplicemente voluti dal popolo!…

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