Criticità fondamentali della legge di bilancio 2019

– di FRANCO CAVALLARI –

Per quanto ridimensionati rispetto agli annunci iniziali, gli stanziamenti relativi ai due istituti ritenuti qualificanti dalle forze della maggioranza, vale a dire il ”reddito di cittadinanza” e la “quota 100” per le pensioni, costituiscono le due pietre d’inciampo del Decreto di attuazione del bilancio finanziario per il 2019. Si tratta delle bandiere identificative delle forze di maggioranza a cui il M5S e la Lega non sono disposte a rinunciare, temendo una devastante perdita di credibilità presso il loro elettorato. Ma l’attuazione di queste riforme rappresenta le maggiori criticità delle norme contenute nella Legge di bilancio a causa dell’elevato tasso di difficoltà realizzativa che comportano, sia a causa della sconclusionata impostazione, sia per l’inadeguatezza delle risorse dedicate.

In effetti, nel complesso delle risorse impiegate per la manovra, ammontanti ad un totale di 31Mld, i due provvedimenti sopra citati, assorbono complessivamente un ammontare di risorse pari a 11,1 Mldr (rispettivamente 7,100 e 4,0 Mld), mentre per gli investimenti pubblici e per il rilancio produttivo, oltre ai vecchi stanziamenti per investimenti non realizzati del periodo precedente completamente fermi, troviamo soltanto uno stanziamento di 15 Mld in tre anni. Dei nuovi stanziamenti, ammontanti a circa 16 Mld, più dei 2/3 è destinato a spesa corrente (per di più inefficace rispetto agli scopi che si prefigge) e meno di 1/3 a non ben identificabili investimenti. Inoltre, il Governo ha dovuto sterilizzare 12 Mld della clausola di salvaguardia dell’anno precedente, ma ha riportato a nuovo per il 2020 una nuova clausola di ben 23 Mld. In sostanza, la nuova spesa afferente ai due provvedimenti in discorso (11,1 Mld) è stata completamente finanziata in deficit, con il raddoppio della nuova clausola di salvaguardia.

Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, le criticità che si frappongono alla sua realizzazione sono molte e di notevole portata, la maggiore delle quali si riferisce allo stanziamento. Già in origine, quando il M5S era all’opposizione, presentò un progetto di legge di iniziativa parlamentare i cui dati finanziari presentavano un’evidente incongruenza. Era previsto uno stanziamento di 17 Mld (di cui 2 per i Centri per l’impiego), per fronteggiare la povertà relativa di 10 Mln di poveri; con una risultante dotazione media di 125 euro al mese per ogni assistito. Con simili importi non si sarebbe certo potuto stabilire né un’efficace sostegno alla disoccupazione, né una significativa lotta alla povertà, ché a ciascuno dei 10 Mln di poveri sarebbe spettato, in media, qualcosa molto simile ad un’elemosina.

Per anni il M5S ha suonato la grancassa della propaganda ribadendo continuamente queste cifre in tutti i “talk show“ televisivi del Paese, senza che nessun politico di opposizione, né alcun giornalista intervistatore avanzasse questa semplice obiezione finanziaria. Andati al Governo, i pentastellati hanno modificato il tiro, ma la conclusione non è diversa: lo stanziamento previsto per il relativo provvedimento, ridotto a 7,1 Mld (di cui 1 Mld per i Centri per l’impiego), deve finanziare l’integrazione a 780 euro per circa 5 Mln di poveri assoluti. I criteri di assegnazione sono molto ingarbugliati, ma, qualunque sia l’algoritmo di distribuzione (individuale, familiare, misto ecc.) si ottiene, per 9 mesi del 2019, una media di risorse per assistito egualmente irrisoria (circa 135 euro al mese).

Un’altra criticità di notevole portata risiede nel meccanismo dell’offerta dei tre posti di lavoro e dell’accettazione di uno di essi da parte di ogni assistito, pena la perdita del diritto all’indennità. Tra le numerose complessità delle regole previste, oltre alla distanza della sede dei lavori offerti rispetto alla residenza dell’assistito. Le norme non stabiliscono alcun legame tra il livello di istruzione dell’assistito e le manzioni da svolgere, lasciando all’arbitrio dei famosi navigators la congruità del lavoro offerto. Ma, a parte ciò e pur non considerando la circostanza che gran parte degli stipendi dei pochi posti di lavoro a tempo indeterminato disponibili nel Mezzogiorno non raggiungono, o superano di poco, i 780 euro mensili, c’è da chiedersi dove si pensa di reperire i milioni di posti di lavoro da offrire agli assistiti. I Centri per l’impiego, per quanto riformati ed efficaci , non creano certo i posti di lavoro e possono al massimo rendere più fluide le possibilità di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Purtroppo, nel Sud della Penisola, dove si accentra la maggior parte dei disoccupati e sottoccupati del Paese, non esiste un tessuto economico in grado di generare i posti di lavoro necessari. V’è poi la difficoltà di addestrare almeno 30.000 funzionari nei Centri per l’impiego (in Germania sono più di 110.000), nonché i tempi di formazione per un mestiere difficile come quello di tutor e di navogator, che, nella migliore delle ipotesi, richiederanno almeno un piaio di anni.

Il Decreto governativo contenente la normativa del reddito di cittadinanza, che dovrà passare al vaglio del Parlamento nel corso del mese di febbraio stabilisce regole abbastanza complicate per i fruitori, (identificati in circa 1,3 Mln di famiglie, corrispondenti a circa 5 Mln di persone), una serie di restrizioni limitative riferite alle condizioni economiche e familiari dei beneficiari volte a ridurre la platea dei beneficiari. Quanto alla distanza della sede del lavoro offerto rispetto alla residenza dell’assistito (100 Km la prima offerta, 250 Km la seconda e l’intero teritorio nazionale la terza), e all’indeterminatezza delle condizioni di lavoro (salario, orari, turni, incombenze ecc.), i disagi che si prospettano renderanno poco appetibile per gran parte dei sottoccupati e dei lavoratori in nero, l’accettazione di condizioni così restrittive di eventuali (e spesso improbabili) posti di lavoro offerti.

In ogni caso, il provvedimento consta di un coacervo di norme scoordinate, complicate ed inapplicabili, che rivelano tutta la scarsità di competenze del M5S; i quali pensano di poter “mascherare” con le complicazioni “antimbroglio” le notevoli difficoltà di attuazione di un provvedimento che somiglia molto alle regole del paese di “acchiappacitrulli” di collodiana memoria. Forse in marzo o aprile di quest’anno il Governo riuscirà a dare a qualche sparuto manipolo di disoccupati un pò di reddito, tanto per poter proclamare di aver adempiuto alle promesse. Ma date le insormontabili criticità descritte e le molteplici difficoltà applicative, il “fiasco” di questa misura si paleserà ben presto, forse ancor prima della fine dell’anno.

Per quanto riguarda “quota 100”, la sorella minore della ventilata abolizione della Legge Fornero, è duopo constatare che siamo in presenza di una proposta sperimentale solo per 3 anni; e tanto modeste sono la sua portata e la sua applicabilità, quanto ridondante è stata la grancassa pubblicitaria intorno alla sua presunta valenza riformatrice. A parte il costo teorico, che nei prossimi 3 anni crescerà notevolmente in ragione dell’aumento progressivo della platea dei possibili beneficiari, va rilevato che, considerata la decurtazione dell’assegno conseguente al più breve periodo di contribuzione, dei circa 400 mila possibili pensionandi, forse neppure la metà finirà per scegliere questa opzione. E’ infatti ragionevole considerare che gran parte degli aventi diritto preferirà aumentare il montante dell’assegno pensionistico.

Nel racconto dei proponenti, questi provvedimenti sarebbero particolarmente utili in tempi di stagnazione (se non di recessione) perché, secondo i canoni di una mal digerita dottrina keynesiona, avrebbero una valenza anticiclica e assicurerebbero il rilancio dell’economia italiana. Ma a parte l’irrilevanza delle proporzioni delle risorse in gioco, va rilevato che l’aumento della spesa corrente è proprio l’ultima delle cose da fare in periodo di stagnazione per sostenere un’economia gravata da un enorme indebitamento pubblico da finanziare sul mercato (data l’assenza di un prestatore di ultima istanza disponibile a finanziare il disavanzo stampando moneta). Ne conseguirebbe una nuovo elemento di fragilità costituito da un aumento spropositato del premio di rischio per finanziare il rinnovo del debito pubblico, spesso notevolmente superiore ai benefici economici della spesa corrente.   E’ noto a tutti gli economisti l’effetto negativo sulla crescita di provvedimenti improntati al cosiddetto “sviluppo autopropulsivo” in periodi in cui gli altri paesi sono in stagnazione. La pretesa di un singolo Paese di adottare malconcepite manovre ancicliche, è stato più di una volta sperimentato dal nostro Paese, in periodi in cui, peraltro, l’Italia disponeva ancora di una banca centrale, con risultati particolarmente disastrosi. In realtà, il moltiplicatore della spesa pubblica corrente è sensibilmente inferiore al moltiplicatore degli investimenti pubblici, i quali, a differenza della spesa corrente, sono in grado di imprimere al mercato dei capitali nuova fiducia attraverso un segnale di positivi sviluppi futuri dell’economia.

In definitiva, dopo il grande sconquasso pseudo rivoluzionario che ha caratterizzato la sessione di bilancio degli ultimi mesi del 2018, già costato al Tesoro del nostro Paese circa 3 miliardi di maggiori interessi sul rinnovo del debito, la montagna propagandistica dei partiti della maggioranza ha partorito il topolino di queste due riforme, la cui natura si rivela del tutto evidente: misure propagandistiche sostanzialmente negative per l’economia italiana, da sbandierare come vessilli in vista delle elezioni europee, che hanno già prodotto il bel risultato che, dopo aver annullato la clausola di salvaguardia di 12 Mld del 2019, si è dovuto raddoppiare a 23 Mld la clausola del 2020 ed elevare a 29 Mld quella del 2021.

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