– di STEFANIA CONTI –
Polidori, vice sindaco di Trieste – Friuli Venezia Giulia – butta in un cassonetto le coperte di un clochard rumeno. E se ne vanta su Facebook. Asquini, assessore alla sicurezza pubblica di Monfalcone – Friuli Venezia Giulia – scrive una filastrocca che insulta gli immigrati. E la pubblica su Facebook. Miserie umane di uomini miseri che disgustano e indignano le persone per bene. Ancor prima che politica, l’ignobiltà di questi figuri, è umana. Probabilmente, visto il loro comportamento, se ne fregano. E non sanno, non sanno perché sono ignoranti e perché preferiscono non ricordare, che quella che oggi loro considerano feccia della terra, un tempo lo erano gli italiani. E viene quasi da sorridere nel pensare che la stragrande maggioranza dei 27 milioni di italiani che dal 1867 a quasi tutto il 900 sono emigrati, veniva dal Veneto e – guarda guarda – dal Friuli Venezia Giulia. Partivano per “terre assai luntane” per lasciare quelle condizioni di disperata povertà in cui si trovavano. Affrontavano mortificazioni e dolore, distacchi e angosce, miseria e disprezzo. E non andavano solo in America, e per America – anzi La Merica , dicevano perché non sapevano neanche leggere – si intendeva tutto. Gli Stati Uniti, l’Argentina, l’Australia. I friulani e i veneti erano così poveri che non avevano neanche i soldi per pagarsi il viaggio per La Merica. Partivano cantando “Andiamo in Transilvania a menar la carioleta che l’Italia povereta no’ l’ha bezzi (soldi, n.d.r.) da pagar”. Ovvero, andavano in Romania.
Alla fine del diciannovesimo secolo migliaia di famiglie, fecero le valigie per andare nella regione della Dobrugia, <dove il clima era benigno e la terra munifica> ,come scrive Andreea Raluca Torre, antropologa, autrice di una ricerca sulla materia per l’università di Londra . Del resto, dai dati sulle partenze italiane, risulta che dal Veneto e dal Friuli, a fine 800 c’è stata una emigrazione più alta di tutte le regioni meridionali messe insieme.
Il regno di Romania nasce nel 1881 e annette la Dobrugia. Ha bisogno praticamente di tutto e quindi incoraggia la migrazione, interna ed esterna. Ai nuovi arrivati veniva data la possibilità di lavorare e di diventare proprietari d’un pezzo di terra. Veneti e friulani, sono tra i primi a rispondere. La Dobrugia, per loro era diventato l’Eldorado. Erano tagliapietre, carpentieri, muratori, piastrellisti, fabbri, agricoltori. Altri venivano impiegati nella costruzione delle ferrovie di fine ‘800 e inizio ‘900. Uno dei centri in cui erano più numerosi era Greci, dove le cinque cave di un granito particolarmente ricercato, davano lavoro a moltissimi di loro, soprattutto per la particolare maestria che avevano nel trattare questa pietra così resistente. Secondo il delegato italiano Beccaria Incisa – che lo scrive nel 1892 – i nostri compatrioti erano molto contenti dello stipendio che ricevevano , “molto più alto di quello che possono avere nel loro paese“. “In un anno la somma totale dei risparmi accumulati dai lavoratori italiani è di circa 4 milioni di lire, in oro” rapporterà qualche anno dopo l’ispettore per l’immigrazione Di Palma.
Ma non erano tutte rose e fiori. I rumeni si lamentavano che “ci rubano il lavoro” (dice niente questa frase?), il governo usava la mano pesante perché “creavano disturbo” (dice niente?), e i rimpatri erano all’ordine del giorno. In seguito alle proteste venne varata una legge che imponeva la precedenza degli operai rumeni nelle assunzioni: prima di italiani, a parti invertite. Così come i controlli alle dogane erano rigidissimi <per evitare invasioni>. Un documento dell’epoca emesso dal Ministero dell’Interno italiano ci dà un’immagine della delicata situazione: “Stante il crescente afflusso dei connazionali in Romania, si dispone che le richieste d’espatrio vengano vagliate con massima severità per quanto riguarda la tenuta morale e politica degli interessati“, perché i locali si lamentavano che gli italiani erano indisciplinati e violenti.
Chissà cosa ne pensano Polidori e Asquini?
Interessante questa pagina di storia.