-di MAURIZIO BALLISTRERI-
E così, il dumping sociale in un paese europeo è divenuto ufficiale: è questo il senso dell’aumento dell’orario di lavoro a 48 ore e dello straordinario a 400 ore in Ungheria. Si tratta dei provvedimenti voluti dal primo ministro Viktor Orbán e approvati pedissequamente dal parlamento ungherese, egemonizzato dal partito Fidesz del premier, senza alcun confronto con i sindacati dei lavoratori.
Per contestare questi provvedimenti di legge, definita “legge schiavitù”, più di 10mila persone hanno manifestato il 16 dicembre scorso sotto il Parlamento e la sede della televisione di Stato, realizzando una delle più grandi mobilitazioni di lotta in Ungheria, da quando la nuova disciplina sul lavoro è stata votata in parlamento e chiedendo al presidente della Repubblica Janos Ader di non promulgarla.
Se la legge dovesse alla fine entrare in vigore, i sindacati magiari, in primo luogo la confederazione ‘Mszsz’ guidata da Laszlo Kordas, hanno già annunciato che realizzeranno proteste sul modello di quelle dei gilet gialli in Francia.
Ma la decisione di Orban ha un pregio, purtroppo, quello di fare chiarezza sull’autentica natura di quel governo, che ha gettato la maschera retorica del “governo del popolo”, per mostrare il vero volto di un sovranismo organico agli interessi del capitalismo, ponendosi in continuità storico-ideologica, sul piano del modello economico e sociale, con i fascismi: il corporativismo di Mussolini in Italia e quello di Salazar in Portogallo, la Falange di Franco in Spagna, la Repubblica di Vichy in Francia.
Insomma, altro che il sovranismo come strumento per contrastare la globalizzazione e la finanziarizzazione a livello planetario, si tratta solo di retorica populista usata come cortina fumogena per coprire la tutela degli interessi capitalistici sul suolo ungherese.
E così l’Ungheria, postasi “al riparo” dalle ondate migratorie, secondo alcuni commentatori in linea con la tragica esperienza filo-nazista sviluppatasi a partire dal 1944 dal partito delle Croci frecciate-Movimento Ungarista, e utilizzando teorie economiche care alla destra nazionalista come la “sostituzione etnica”, ha scelto la strada di ridurre al minimo le tutele sociali e di aumentare i carichi di produttività a salari (bassi) invariati, sicuramente anche per attirare capitali, con la pratica risoluta del dumping sociale.
Ancora una volta viene ad evidenza l’inadeguato o addirittura inesistente ruolo dell’Unione europea, i cui organi, commissione e parlamento, sono silenti sulla vicenda ungherese. Un’Europa ferrea custode dell’ortodossia ordoliberale, pronta a punire i paesi che violano i parametri economicistici, invero non con tutti come testimonia la disparità di trattamento tra Italia e Francia, ma disinteressata ai temi sociali, peraltro poco rilevanti nei Trattati dell’Ue.
Ma se l’Europa non vuole la disgregazione, da questi temi deve ripartire, bandendo l’austerity e promuovendo un piano straordinario di investimenti di tipo neo-keynesiano; e per il mondo del lavoro definendo una soglia minima di salari, di pensioni e di orari uguali per tutti, la cui violazione comporti una procedura d’infrazione: serve la clausola sociale su scala europea.