-di VALENTINA BOMBARDIERI-
Era il 16 dicembre 1966 quando il “Libretto Rosso” di Mao Zedong venne pubblicato a Pechino. I cinesi, lo chiamano Máo Zhǔxí Yǔlù, ma anche “Libro delle guardie Rosse”. Una raccolta di pensieri e citazioni del presidente scritta dal comandante dell’armata rossa cinese, Lin Biao. Venne poi comunemente chiamato “Libretto Rosso” per il formato del volume, di dimensioni ottimali per essere contenuto nella tasca superiore della “camicia maoista”, ai tempi l’indumento più utilizzato in Cina.
“La rivoluzione – scriveva Mao – non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra”.
Un’intera generazione rimase segnata e affascinata da quel libretto. Che risultò essere il libro più venduto di tutti i tempi, dopo la Bibbia. Vennero distribuite circa 900 milioni di copie.
Fu baciato dal successo anche in Italia dove cominciò a circolare nelle Università. Un manuale che tenuto in mano sembrava esprimere fiducia incondizionata nei confronti della rivoluzione, poi però, molti di quegli “sbandieratori” del libretto sono passati sul fronte opposto, quello della contro-rivoluzione. Era, comunque, il 1968 e l’Italia stava cambiando, il vetno della contestazione soffiava forte tra i giovani che affollavano le aule universitarie e quelle scolastiche.
Nella testa di quei ragazzi c’erano Fidel Castro, i Beatles e Martin Luther King. C’era la fotografia di un mondo che poteva cambiare, grazie a loro.
E c’era la presenza evocatrice di Mao Zedong, presidente del Partito comunista cinese, e di quel libretto rosso; in pochi prestavano attenzione a cosa c’era dietro quelle pagine, cioè nella realtà della società cinese carica di oppressione e povera di libertà. Svettava la figura di Lin Biao, ministro della difesa, che arrivò al vertice del potere per poi precipitare rovinosamente e scomparire misteriosamente. I “nemici” erano: il presidente della repubblica, Liu Shaoqi e il segretario del Pcc Deng Xiaoping. Una lotta ideologica con l’obiettivo di creare una società comunista senza classi e senza stato che mascherava, però, una lotta per il potere che sarebbe proseguita anche dopo la morte di Mao. Il progetto era quello di creare una “rivoluzione permanente”, distruggendo lo Stato centralizzato, creando piccoli Stati raggruppati in attività produttive e funzioni educative e militari.
L’esperimento cinese fallì non senza congrui spargimenti di sangue. Il comunismo morì silenziosamente in Cina, prima ancora che a Berlino. Rimasero le foto dei “figli” occidentali di Mao, dei “servitori del popolo” o come vennero beffardamente definiti, “del pollo”, borghesi spesso non particolarmente oppressi dalle durezze della vita e che con il trascorrere degli anni ruppero le righe passando dall’estremismo maoista al rampantismo delle Milano da bere.