– di GIULIA CLARIZIA-
Di questi tempi si parla spesso di immigrazione, ma pochi conoscono la quotidianità che coloro che richiedono asilo in Italia si trovano a vivere. Mentre proliferano i luoghi comuni, tra chi sostiene che ci rubano il lavoro, e chi invece ritiene che i migranti siano dei fannulloni che passano le giornate a bivaccare, spesso sostenendo entrambe le tesi senza rendersi neanche conto che sono in contrapposizione tra di loro, la verità si perde.
Per questo rivolgiamo oggi qualche domanda a due giovani, Gregorio e Virginia, che iniziando a lavorare in un Centro di Accoglienza Straordinario (CAS) come responsabili, si sono trovati a contatto con una realtà complessa. Dopo poche settimane, però, hanno deciso di licenziarsi. Senza voler cadere nelle generalizzazioni, le pagine che seguono ci aiutano a capire cosa non funziona nel modo in cui l’Italia si confronta con il flusso migratorio che ci riguarda.
Quali erano le vostre aspettative quando avete accettato un lavoro di questo tipo? E con cosa si sono poi scontrate?
VIRGINIA: Io sinceramente avevo delle aspettative molto alte perché la cooperativa di per sé sui social sembrava avere un buon tessuto sociale e una buona rete di accoglienza. Si vedevano degli eventi che facevano per le rivalorizzazioni urbane, che comunque sono cose che vanno a grande beneficio del paese in cui viene aperto il centro di accoglienza, dei beneficiari del progetto, ma anche della stessa cooperativa perché è un modo per integrare tutti e tre gli attori. Quando poi sono entrata nel centro mi sono resa conto che in realtà, tutto il lavoro che veniva fatto dalla cooperativa, veniva fatto per la facciata. Quindi stare attenti che ci fossero tutte le carte in regola per la prefettura e stare attenti che sui social e le persone dall’esterno avessero l’idea di una buona cooperativa, quando ci si dimenticava dei protagonisti principali, ovvero le persone ospitate.
GREGORIO: Anche io sono partito con delle aspettative molto alte. Sia per il ruolo in sé, perché eravamo responsabili di un Centro di Accoglienza Straordinario, sia per il sostegno che con il nostro ruolo potevamo dare alle persone che erano beneficiarie del progetto. Queste aspettative si sono scontrate con la confusione burocratica. Non tanto del CAS, ma del quadro legislativo italiano. Perché se in teoria è vero che queste persone possono stare in un CAS per tempo determinato, tra i 10 e i 12 mesi, in realtà noi ci siamo trovati ad avere a che fare con ospiti le cui domande di asilo erano state depositate anche 4 o 5 anni prima.
Quindi loro restano lì più tempo di quello che dovrebbero.
GREGORIO: Restano nel centro il triplo del tempo che dovrebbero. I CAS sono strutture che vengono aperte in aiuto alla mancanza di posti nei progetti SPRAR[1]. E il paradosso è che ci sono molti più ospiti nei CAS che negli SPRAR. Quindi se il modello del CAS doveva essere superato e poi inglobato nel modello degli SPRAR, sta avvenendo tutto il contrario. Per quanto riguarda invece la nostra esperienza nel particolare, le nostre aspettative si sono scontrate con un forte menefreghismo e incapacità da parte di una cooperativa che nonostante abbia tra chi lavora anche ragazzi che ha fatto integrare, non ha una visione di lungo periodo per integrare queste persone in generale. Vengono depositate in quelle strutture come se fossero dei pacchi postali a cui non si dà – tranne qualche spurio progetto come l’insegnamento della lingua italiana, o la partecipazione a dei corsi di formazione –la possibilità di essere integrati nel territorio. Anche perché i CAS, specialmente i nostri, sono geograficamente fuori dalla città. In aperta campagna. Quindi anche fisicamente c’è difficoltà di integrazione.
E il fatto che fossero in aperta campagna dipende dal fatto che questi ragazzi lavorano poi effettivamente nei campi?
VIRGINIA: No. Di solito si cercano strutture fuori perché meno sono viste, meno sono un problema. C’è anche da dire che dove stavo io era una vecchia casa di cura per anziani. Era in mezzo al verde, un posto tranquillo. Sono comunque vecchie strutture rivalutate. Ma esistono anche CAS nelle città. E lì la presenza di queste persone è percepita molto di più. Perché mentre in campagna i ragazzi rimangono quasi tutto il giorno lì, in città vanno anche in giro per passare il tempo. Quindi c’è una percezione diversa.
GREGORIO: Il fatto che i CAS siano geograficamente fuori dal perimetro della città, dà difficoltà a questi ragazzi di integrarsi nel tessuto. Però quando la prefettura apre i centri, o vengono messi a bando, bisogna valutare il problema del tessuto sociale. Quando andavo a prendere Virginia con la macchina, per dividerci il viaggio, lei aveva delle case vicino al centro. Un giorno stavo aspettando che finisse il turno e un signore si è avvicinato e mi ha chiesto se lavorassi lì, dicendo di dover parlare con qualcuno perché non era possibile che quelle persone vivessero accanto a lui, come se in un certo senso ledessero la proprietà privata. C’è la volontà, non proprio limpida, di tenerli fuori da quello che è il quartiere, il contesto cittadino ecc.
Si dice spesso che le cooperative lucrano sui 35 euro al giorno ogni migrante che viene ospitato. È una cosa che avete riscontrato?
GREGORIO: È la questione più dibattuta. I CAS e gli SPRAR vengono finanziati dallo Stato. Da un fondo nazionale, e sta alla cooperativa gestire i 35 euro, che ovviamente non vanno ai beneficiari del progetto. Loro hanno mensilmente una quota, il così detto pocket money, cioè 2.50 euro al giorno che possono utilizzare per le loro spese.
VIRGINIA: molti li mandano anche in Africa alle loro famiglie
GREGORIO: Esatto. Quindi con questi 35 euro devono erogare il pocket money, pagare gli operatori, far fronte alle spese che la cooperativa ha: pasti, acquisto di medicinali, manutenzioni. Qualsiasi cosa. Poi se su questi 35 euro le cooperative ci lucrano? Io penso di sì. Perché il sistema dell’accoglienza italiano è lasciato un po’ a sé. Non c’è la volontà del legislatore di metterlo a regime.
Ho letto che non ci sono controlli…
Gregorio: Le spese devono essere rendicontate in un bilancio della cooperativa. Però questo si inserisce in un quadro nazionale – ora io non voglio fare cliché perché li odio – ma il problema dei fondi gonfiati, dei bilanci manomessi, non è una novità. Questo contribuisce tantissimo a trasmettere alle persone l’idea che questi 35 euro vanno nelle mani dei beneficiari, quando assolutamente non è così. Se la cooperativa se li mangia o meno loro non ci guadagnano. Poi su questo discorso bisogna valutare realtà per realtà, è sbagliato dire che tutte le cooperative ci lucrano sopra e superficiale dire che non esiste un problema del genere. È una cosa che deve essere regolamentata e controllata molto di più.
VIRGINIA: La cooperativa non fa volontariato. Non è una onlus. Quindi è normale che ci guadagni. Bisogna vedere se ci guadagna garantendo tutto ciò che è previsto dalla prefettura a sostegno dei beneficiari. E se tutto ciò fosse garantito, a guadagnarci sarebbero solo le cooperative più grandi. La piccola cooperativa che apre un centro con 20 persone, e con quei 35 euro delle 20 persone deve pagare tutte le cose che abbiamo detto prima, avrebbe un margine di guadagno molto minore rispetto a una grande cooperativa. Poi che ci guadagnino è logico e scontato. Bisogna vedere come.
GREGORIO: Sarà brutto dirlo, ma per loro un migrante è un’entrata economica.
Però parlando per assurdo, il fatto che il migrante sia un’entrata economica rende vantaggioso accoglierli. E questo potrebbe essere positivo, se c’è un vantaggio per entrambi. Il problema è quando mancano degli standard di qualità.
GREGORIO: Gli standard sono pochissimi. Chiunque può fare domanda per accogliere i migranti. I comuni, i privati con hotel… Loro ci guadagnano nel senso che vengono finanziati in base al numero di migranti che hanno. Poi se quell’albergatore i 2,50 euro non li eroga, la manutenzione non la fa, non garantisce i pasti, le cure mediche, non rimborsa le spese, quei 35 euro fanno una fine che non dovrebbero fare. L’operato delle cooperative dovrebbe essere incanalato in una gestione più proficua. Non tanto per chi ci lavora perché gli operatori che sono lì, psicologi, insegnanti ecc. sono persone che lavorano. Non sono dei volontari. È giusto che siano stipendiati. Ma devono esserlo in un quadro limpido.
Parlando ora della vostra esperienza diretta, qual è la situazione più difficile che vi siete trovati a dover fronteggiare?
VIRGINIA: La parte medica. Io mi sono trovata con dei ragazzi che avevano bisogno di cure mediche e non avevo i mezzi per farli curare. Esempio più eclatante: mi sono fatta trenta chilometri in macchina con un ragazzo sospetto di tubercolosi. Lui non voleva assolutamente l’ambulanza e ha iniziato a fare il pazzo. Io non mi sono sentita di chiamarla perché non sarebbe salito. Ho contattato la cooperativa e non mi è stata data risposta. Allora con tutte le dovute precauzioni me lo sono messo in macchina e l’ho portato da Emergency. Quella che è stata l’emergenza ma c’erano anche cose più comuni: tipo che c’erano dei ragazzi che non avevano la finestra, perché gli si era rotta e dormivano senza. Se pioveva, pioveva in camera.
E perché non è stata riparata?
VIRGINIA: io ci ho provato per due mesi a richiederlo e non mi è stata data risposta. Altro esempio ancora più banale. Mancano le tende per le docce. I ragazzi dicono: “Noi viviamo in sei in una camera, usiamo il bagno in sei, senza chiave. Almeno quando ci facciamo la doccia, se entra qualcuno almeno possiamo avere un po’ di privacy”. Io ho riportato questa critica e la risposta è stata: “Vabbè, tanto in Africa non ce le avevano le docce quindi è un capriccio”. Come se si avesse a che fare con un canile, che gli devi dargli da mangiare e basta.
GREGORIO: Io avevo all’incirca un’ottantina di ragazzi nel centro, prevalentemente nigeriani, gambiani e qualche senegalese. Una delle esperienze più dure è stata cercare di sbrogliare la situazione legale, quindi dare la possibilità a qualche ospite di accedere all’esame della domanda di protezione internazionale prioritaria che viene concessa ai beneficiari che hanno delle fragilità di natura fisica o psichica. Non viene inquadrata nelle fragilità la situazione economia. Se sei nullatenente, per la commissione territoriale non sei in una situazione di pericolo, quando in realtà bisognerebbe guardare caso per caso. Avevo dei ragazzi che erano in cura al Centro di Sanità Mentale perché avevano subito delle vicende che non possiamo nemmeno immaginare. Senza ledere il segreto professionale, c’erano dei ragazzi – erano tutti uomini – che prima di arrivare in Italia hanno lasciato il loro paese e ne hanno attraversati una quindicina prima di arrivare in Libia, dove sono stati torturati psicologicamente e fisicamente dalle bande che controllano il territorio. Noi responsabili avevamo l’accesso alle loro cartelle. Non per fare pettegolezzo, ma perché se deve accedere alla domanda di protezione internazionale prioritaria o devi risolvere delle faccende in questura, un responsabile deve conoscere la situazione. C’era un ragazzo che è stato costretto da gli Asma boys a defecare sul cadavere dell’amico a cui avevano appena sparato in testa, con la minaccia che se non lo avesse fatto avrebbero sparato anche a lui. Lui è cristiano. Gli Asma Boys sono fondamentalisti musulmani. Gli chiesero di rinnegare Dio e strappare la Bibbia. Cosa che questo ragazzo non fece, perciò venne picchiato quasi a morte prima di sparare all’amico che a sua volta non volle strappare la Bibbia.
VIRGINIA: E perché i trasferimenti?
GREGORIO: I trasferimenti sono un’altra questione spinosa. Perché questi ragazzi per questioni logistiche o strutturali vengono trasferiti da centro a centro, anche sradicandoli dal contesto in cui si erano appena cominciati a integrare. Come se tu hai vissuto cinque anni a Roma, domani ti dicono: “te ne devi andare a Firenze”. Io posso anche ricominciare da capo ma avrei delle difficoltà. Ho il triplo delle possibilità di una persona del genere. Quindi i trasferimenti hanno un forte impatto a livello psicologico. Anche perché noi abbiamo avuto a che fare con dei ragazzi che hanno fatto resistenza fisica. Molto spesso a loro non viene giustificato il trasferimento. In loro scatta una difesa verso questo tipo di trattamento perché non sono pacchi, non sono bestie. Questo perché il problema dell’immigrazione, dopo anni, viene ancora gestito come un’emergenza. Ed è l’approccio più sbagliato di tutti perché non è una questione emergenziale. La storia dell’uomo ha da sempre a che fare con le migrazioni e sempre ce l’avrà. E il nostro paese pure perché siamo in una posizione geograficamente strategica. Quindi la gestione dell’immigrazione deve essere inserita nelle politiche sociali. Bisogna toglierla dalle politiche di sicurezza.
VIRGINIA: comunque a frase che mi sono più volte sentita dire è: “Non siamo degli animali”.
Alla fine di questa esperienza avete deciso entrambi di lasciare questo lavoro, perché non riuscivate a migliorare la situazione dall’interno. Di solito chi è in queste situazioni o continua a provare, o decide di lasciare per non compromettersi con una realtà che non gli appartiene, e immagino sia stata questa la vostra situazione. Come vi sentite rispetto a questa scelta?
VIRGINIA: Per me è stato difficilissimo. Lavoravo con dei ragazzi che erano bravissimi. Erano sessanta, ma erano bravissimi. E mi rispettavano tantissimo. Io non pensavo che sessanta uomini potessero rispettare così tanto una ragazzina più piccola di loro, donna. Invece ho trovato un grande rispetto e una grande affezione, perché più o meno abbiamo tutti la stessa età, tra i venti e i trent’anni.
Questo ribalta i luoghi comuni…
VIRGINIA: Una volta c’è stato un litigio nel mio centro. Sono uscita per vedere cosa succedesse. E qualcuno degli stessi ragazzi mi ha presa e mi ha fatto rientrare in ufficio e mi hanno detto: “Tu stai qua perché queste cose brutte non le devi vedere”. Loro hanno una grandissima attenzione. Anche quando c’era qualche protesta, non era mai contro di me, ma contro il sistema. Mi sono trovata molto bene. È stato difficile andarmene prima di tutto perché mi sono sentita un po’ di abbandonarli, secondo perché è un lavoro che io amo fare. Ero contentissima di aver iniziato, mi trovavo bene con loro e ho dovuto lasciare.
Senza contare quanto è difficile per dei ragazzi trovare il lavoro che gli piace…
VIRGINIA: Io ero arrivata a non dormirci la notte per una questione di moralità. Studio per una buona accoglienza e integrazione, e dovrei contribuire con un sistema che fa l’esatto opposto. Sfrutta i migranti per guadagnarci, che è una cosa contro la quale io mi batto da anni. Tutti dicono che sono una pazza quando racconto che mi sono licenziata.
GREGORIO: Anche io ho lasciato per una questione di principio. Non sopportavo di non poter incidere positivamente sulla vita di queste persone, perché il mio ruolo sulla carta me lo consentiva, in quanto responsabile. Mi dava la possibilità di rendergli la vita un po’ meno difficile. Questo non mi è stato concesso dal sistema. E non dormivo la notte perché mi sentivo come Don Chisciotte, combattevo contro i mulini a vento. Quando un ospite ha un problema di qualsiasi natura a chi si rivolge? A te. Perché sei la persona fisicamente e psicologicamente più vicina a coloro che loro reputano deputato a risolvere i loro bisogni. Ovviamente io non avevo tutto questo potere, perché dovevo dar conto anche ai dirigenti della cooperativa. Io ero responsabile solo di un centro. E molto spesso le mie richieste cadevano nel vuoto, o venivano interpretate come dei capricci, quando erano richieste di necessità basilari. Dopo che mi sono reso conto che il nostro lavoro lì era completamente minato da questa negligenza, non ho voluto esserne complice. È un sistema che fa acqua da tutte le parti, e deve essere riformato il prima possibile.
[1] Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati