di PIERLUIGI PIETRICOLA
È da poco stato tradotto, per Adelphi, un libro di Mark O’Connell di cui consiglio caldamente la lettura: Essere una macchina. Un viaggio attraverso cyborg, utopisti, hacker e futurologi per risolvere il modesto problema della morte.
Si tratta d’un volume agile, ottimamente scritto (e meravigliosamente vòlto in un italiano limpido e dai ritmi distesi), che susciterà grande interesse. Per lo meno mi auguro che l’attenzione possa essere destata fra i lettori. Perché l’argomento è di straordinaria attualità: la presenza delle macchine nella vita dell’uomo e a come questo rapporto pian piano si intensifichi fino a confondere le due parti. Sicché potrebbe arrivare un dì in cui più non sarà possibile distinguere esseri umani da robots (moderni golem).
Da parecchio tempo è in voga, per il mondo, una corrente di pensiero denominata Transumanesimo. Suo principio è quello di rendere vieppiù complessi gli oggetti meccanici semoventi (siano essi robots o qualcosa di diverso), dotandoli d’umana ragione, di sentimenti ed emozioni. Non solo: si pensa addirittura di poter trasferire, al più presto, la coscienza individuale da un corpo a uno di questi macchinari.
Fra i protagonisti che popolano il libro polittico di O’Connell, vi è Hans Moravec. Nome che non mi è suonato nuovo. Lo ricordavo citato già da Roger Penrose, che del primo recensì il volume pubblicato un trentennio fa dal titolo Mind Children: The Future of Robot and Human Intelligence. In quelle pagine si sosteneva che non solo l’intelligenza robotica avrebbe prevalso in futuro, ma che addirittura si sarebbero potute trasferire intere parti del cervello in un siffatto marchingegno.
Ciò che allora poteva sembrare pura utopia negativa, oggi pare verosimile. Che si possa realizzare si è ben lungi dall’asserirlo con certezza. Di sicuro v’è che, a tal riguardo, esperimenti e teorie sono massicciamente aumentati negli ultimi decenni.
Non occorrerà rievocare ciò che nel libro si narra anche attraverso la diretta testimonianza di coloro che ne sono i protagonisti.
Ci si ponga, però, questa domanda: perché nutrire l’esigenza di portare la nostra anima in una macchina? La risposta più ovvia è quella di raggiungere – o approssimarsi – all’eternità, così rivaleggiando con Dio (o qualsiasi altra entità metafisica si voglia prendere in esame). A che pro? O per avere certezza che la metafisica non sia parola vuota o metodo di ragionamento usato in filosofia, o per giungere al di là delle Colonne d’Ercole che più ci appartengono, trascendendo l’illuministico detto: “Tutto ciò che è razionale è reale”.
Che il trasferimento dell’umana individualità si possa o meno realizzare, tale prospettiva, seppur attraverso tortuosi sentieri, ci conduce vicino a quelle mete a cui altre filosofie – le Orientali in particolare – da tempo sono già arrivate.
In tal modo non è più in gioco la realizzazione pratica di ciò che viene teorizzato dal Transumanesimo, bensì l’idea di far propri nuovi concetti a discapito di alcuni. Primo fra tutti: l’inconsistenza della persona.
Si potrà obiettare che Moravec e la sua brigata predicano l’esatto contrario. Ma si provi ad afferrare l’individualità, o coscienza, d’un uomo: cosa si finirà per avere fra le mani? Un insieme di processi in perpetuo mutamento. E come inserire questo incessante fluire dentro una macchina assieme alla singolarità propria d’ogni individuo? Potranno mai i sentimenti essere salvaguardati così come da noi provati e vissuti?
Rispondere con certezza, per quel che se ne sa ora, è arduo. Però giungere a considerare il corpo umano come il contenitore di qualcosa di ben più importante e fondamentale, ponendovi finalmente la dovuta attenzione, potrebbe essere una conquista non da poco.
Non così innovativa per la verità. Dato che già molti altri – fra tutti Douglas R. Hofstaedter – ne hanno ampliamente e dettagliatamente discorso.
E se per un istante si vuol accantonare l’universo delle protesi, così debordante in Occidente, ci si potrà rivolgere al mondo indiano e ai suoi principi che conducono l’uomo – seguendoli passo passo – alla liberazione. Si raggiungeranno vette ben più stimolanti e inebrianti.
In caso contrario, si potranno scorrere le pagine di O’Connell adottando questa prospettiva salvifica: che scopo della nostra esistenza terrestre è quella di giungere ad un’autentica liberazione.
Indifferente la via che si deciderà di percorrere. Purché, però, ci si metta in cammino.