– di PIERLUIGI PIETRICOLA –
Torno a parlare di migrazione. E non perché sia di stringente attualità. Per mia propensione, quando un argomento è affrontato in modo eccessivo e da tutti, me ne disinteresso. V’è una prospettiva sul tema che, però, val la pena considerare e nella quale mi sono imbattuto casualmente in un libro che lessi una decina d’anni or sono: Lo stupore infantile di Elémire Zolla.
Due parole sull’autore. Zolla fu un uomo di sterminata conoscenza. In tanti che avranno avuto la fortuna di studiare letteratura anglo-americana alla Sapienza degli anni d’oro, lo avranno incontrato per i corridoi della facoltà di Lettere o seguito le sue lezioni. Al di là di ciò, egli fu uomo di immensi interessi. Come pochi, seppe spaziare per ogni campo del sapere, penetrando culture d’Occidente e d’Oriente, sempre mantenendo quell’impronta di leggerezza tipica degli spiriti ricchi di brio. Chi volesse conoscerlo, suggerirei di partire da un titolo che da subito mi avvinse alla prima lettura: Uscite dal mondo. Vi si indicano forature attraverso le quali è ancora possibile respirare a polmoni pieni un’aria di libertà inconsueta. Un libro dai temi e dallo stile insoliti, una figura presa a mo’ d’esempio e su cui ci si avvoltola a riflettere, un tratto di storia osservato da diversa visuale: sono, queste e molte altre, vie per divincolare le nostre vite da spire ridicole e soffocanti. Uscire dal mondo è – cito a memoria – non avere bisogni da soddisfare, interessi da difendere o paure da sedare. Vuol dire andare incontro a ciò che non si conosce coll’identico stupore con cui un bimbo scopre l’universo che lo circonda.
Ne Lo stupore infantile, il capitolo sesto è tutto incentrato sulla migrazione. Zolla ne scopre i caratteri mitici e metafisici. Il perpetuo viandante, l’apolide, colui che in nessun luogo dimora e che sente come casa propria il mondo, è individuo prossimo alla liberazione come i mistici e gl’illuminati d’Oriente l’intendono. Certo, a tale stile di vita può non essere del tutto alieno l’elemento delinquenziale. E quindi capita, talvolta, che coloro che migrano siano propensi a commettere atti disonesti, arrecando danno alle comunità che li accolgono.
Ma sovente avviene il contrario. E quando ciò accade, ecco far capolino un accadimento a cui mai si pensa e che, invece, domina da sempre l’esistenza di tutti – stanziali o meno che si sia: il sincretismo.
Spiegare questa parola è semplice. Non occorreranno immaginazione né dizionari etimologici. Basterà pensare – senza andar distanti – all’attuale Cristianesimo. Tutto è fuorché una religione pura. Esso emerge dalla concomitanza dell’ebraismo, dei misteri Eleusini e del culto di Mitra; e tale bozzolo di conoscenze e sapienza s’è amalgamato mercé la filosofia platonica ed ecco sorgere ciò che conosciamo col nome di Cristianesimo. Questo è il sincretismo: elementi spuri che, fusi fra loro, danno vita a qualcosa prima inesistente.
La storia tutta è sincretica. Basta pensare alla cultura latina d’epoca romana e ai debiti ch’essa deve dagli imprestiti di quella greca. Oppure, su un piano diverso, all’attuale cultura americana sorta mercé le dominazioni europee successive alla sua scoperta.
Per attuarsi, il sincretismo deve poggiare sull’incontro fra culture diverse. Non potrebbe sussistere altrimenti. E tale incontro avviene grazie a popoli che, migrando di terra in terra, entrano in contatto con quelli stanziali nei territori via via visitati.
Zolla racconta come la stessa Italia – nazione da anni riottosa ad aprirsi a nuove prospettive provenienti anche (perché no?) da diverse culture – attuale sia figlia diretta di fenomeni migratori. Essi risalgono ai tempi della dominazione longobarda. E tracce ancora se ne trovano nelle lingue parlate nel rietino o nel Friuli-Venezia-Giulia.
Mi interessa molto la prospettiva che scaturisce da tale ragionamento: e cioè che attraverso la migrazione si può ambire a raggiungere vette inattese di liberazione individuale, oltre a sperare che una cultura non muoia perché priva di affluenti di cui arricchirsi.
Ostinarsi a ritenere l’esodo un fenomeno prettamente politico ed economico, avrà come sola conseguenza quella d’ingenerare sciocche resistenze.
Ceronetti – da poco scomparso – nel suo Ti saluto mio secolo crudele, proprio ad inizio di libro, afferma che evento significativo del Novecento potrebbe essere la penetrazione del pensiero d’Oriente nell’Occidentale, “liberato dalla grata cristiana, definibile come pensiero svuotatore che, per modo di dire, si stende in uno spazio disabitato, abbandonato e bruciato”. Che il nostro Cattolicesimo abbia tesoreggiato tale incontro, c’è da discuterne. Però in molti ne avranno giovato. Al punto che oggi non si ha difficoltà a nutrirsi secondo nipponica o cinese costumanza, o a dialogare con quegli omini dagli occhi a mandorla e dai modi così aggraziati e privi di nevrosi. Semplicemente perché non li si sente diversi da noi. E viceversa, loro non percepiscono insanabile estraneità per la nostra cultura. Al punto che vi sono moltissimi orientali in grado di cucinare ottimamente come tradizione mediterranea richiede.
E perché tale miracolo non potrebbe avvenire di nuovo? Basta distogliere, per poco, l’attenzione dalle stolide ragioni oppositive che economia e politica coattamente impongono. Di ricchissimi universi si finirà per disporre.
Per dirla con le parole conclusive del saggio di Zolla: “Non speriamo di accostarci alle prospettive alte che i migratori possono attingere alla fine dei loro percorsi, quando inventano un sincretismo. Né possiamo sperare… di accostarci a quel mondo interiore dei migranti librato fra le strutture aliene, abbandonato ai venti, prossimo alla liberazione eppure di essa ignaro. Se vorremo procedere verso la liberazione, tuttavia, questo stato lo dovremo assimilare”.
Quale politica saprà essere all’altezza di tale prospettiva?