-di MAURIZIO BALLISTRERI-
Il primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile ha visto l’affermazione di Jair Bolsonaro, leader del PartidoSocial-liberal (PSL) di estrema destra, catalogabile come sovranista con tinte xenofobe. Il sovranismo, così, sembra diffondersi anche oltre i confini europei e, d’altronde, lo stesso presidente americano Donald Trump viene dipinto come nazionalista.
E ciò che inquieta di più nelle contestazioni del Pd alla manovra economica prevista dal governo “gialloverde”, certamente non esente da rilievi e da critiche anzi tutt’altro, è proprio il richiamo ossessivo al sovranismoattribuito alla cultura delle forze politiche che lo compongono, Lega e 5 Stelle.
Come nella fiaba di Andersen bisogna avere il coraggio di dire che “il re è nudo” e che dietro il termine sovranismo si nasconde l’accusa di nazionalismo e da lì di fascismo, che, però, non si vuole esplicitare.
In realtà il principio di sovranità è espressione delle democrazie più avanzate, naturalmente fondato sul popolo attraverso il voto e non quello vetusto degli Stati assoluti, come dimostra la nostra Costituzione il cui art. 1 non prevede solo il fondamentale riferimento al lavoro ma anche a quello della sovranità popolare.
La verità è che dopo il crollo del muro di Berlino, molti partiti ex comunisti e socialisti europei si sono abbandonati entusiasticamente al mito del mercato, sposando il fallimentare modello della “terza via” di Blair, di Schröder, di Prodi e di Clinton, abbandonando il riferimento di ogni sinistra al mondo, sia essa riformista che un tempo rivoluzionaria: il popolo e, soprattutto, le classi più deboli, sposando esclusivamente il tema dei diritti civili un tempo definiti dalla “sinistra di classe” espressione di “cosmopolitismo borghese”.
E’ davvero paradossale, come la “bestia nera” dei sedicenti progressisti a livello mondiale, il presidente americano Donald Trump, abbia imposto nel nuovo accordo commerciale tra Usa e Messico una “clausola sociale” basata sull’obbligo di un salario minimo per i lavoratori dell’auto dei due paesi, contro il dumping sociale e le delocalizzazioni, mentre il Pse, una parte di esso attirato dal “pifferaio magico di Hamelin” della finanza globale, il presidente francese Macron, sostiene globalizzazione e monetarismo europeo.
Oggi chiunque contesti la mondializzazione viene considerato populista. Storicamente, però, la sinistra ha sempre avversato il trasferimento del potere fuori dai confini dello Stato, basti pensare alla critica che i comunisti italiani opposero alla Nato e, per molti anni, al Mercato comune europeo, mentre lo stesso internazionalismo operaio era declinato come l’esigenza di portare lo sviluppo nei paesi più arretrati, per combattere “l’imperialismo capitalistico”, secondo le analisi di Karl Marx.
Così come incomprensibile è il ritenere che la richiesta di protezione dei cittadini risponda alla vecchia visione “law and order” o, peggio, a pulsioni razziste o xenofobe, che, beninteso, non mancano ma sono minoritarie.
Il capitalismo, lasciato a sé stesso, tende a distruggere la coesione sociale e il compito della politica è costringerlo ad adattarsi alle esigenze della democrazia e delle collettività, regolandolo, mettendo dei limiti, tutelando gli interessi dei suoi cittadini, lasciando che il conflitto sociale si manifesti. E’ quanto hanno fatto nel secondo dopoguerra le socialdemocrazie europee attraverso il Welfare State, la tassazione progressiva, i diritti del lavoro, la partecipazione operaia nelle aziende, l’intervento pubblico in economia, a partire dal Programma fondamentale della Spd di Godesberg nel 1959, con il suo motto: “Tanta concorrenza quanta possibile, tanta pianificazione quanto necessaria”.
La sinistra nel Vecchio Continente non si pone il problema della costruzione di una sovranità europea, fondata su di una politica comune a livello internazionale, un esercito di difesa, una tassazione omogenea, un salario minimo legale e un welfare di base, alzando gli scudi a difesa di una visione di politica economica, l’austerity, che ha impoverito la grande parte dei cittadini europei, che guardano adesso ai cosiddetti populisti come difensori dei loro interessi.
Il punto è che dopo il 1989 alla sinistra è mancata la capacità di utilizzare quel metodo di analisi della realtà elaborato da Gramsci, per guardare senza dogmi ai fenomeni politici e sociali e alle loro contraddizioni.
Ottima analisi, mi trova totalmente d’accordo.