29 settembre, una canzone, un film, i sogni di una generazione

29-settembre

-di VALENTINA BOMBARDIERI-

Ci sono giorni che profumano di ricordi, di anniversari che richiamano alla memoria grandi eventi storici. E poi si sono giorni, come oggi, che profumano di una canzone o di un film, di momenti effimeri, emotivi che riguardano una, due generazioni al massimo ma che alla fine ci accompagnano in maniera quasi rassicurante come fossero coperte di Linus. Il 29 settembre per i tanti che hanno superato (a volte anche abbondantemente) i sessanta sono gli Gli Equipe 84 che cantavano “Seduto in quel caffè, io non pensavo a te”.

La voce di Riccardo Palladini, storico lettore del telegiornale Rai, recitava se stesso sulla “traccia” del “45 giri” ricordando la data: “Oggi, 29 settembre”. Una canzonetta, simbolo dell’effimero e anche di un tempo (1967) inquieto e turbolento, annunciatore di grandi libertà, di un costume nuovo spinto da un vento che arrivava da Londra e dalla California (i Dik Dik cantavano “ti sogno California e un giorno io verrò”). Una canzone impastata di amore e tradimenti ma che nella versione dell’Equipe 84, almeno a parere di alcuni critici, portava sulla scena della musica un nuovo genere, il rock psichedelico (che poi si sarebbe mescolato, a volte tragicamente, all’uso di sostanze particolari), con i Beatles che solo qualche mese dopo avrebbero tirato fuori “Sgt Pepper’s”. Il protagonista incontra una donna per caso in un caffè ed è travolto da una storia di passione. È già il 30 settembre quando decide che è l’ora di tornare a casa, di abbracciare la propria donna, sporchi di un tradimento, lasciandosi andare a una risata liberatoria, che nessuno riesce a capire. In fondo, quasi una banalità per per l’Italia di allora, ancora profondamente, geneticamente “bacchettona” una piccola rivoluzione in musica.

Una canzone che fece la storia della musica italiana. Un giovane Maurizio Vandelli cantava una poesia scritta da Mogol e musicata da Lucio Battisti, sarà poi quest’ultimo a riportarla al successo pochi anni dopo ma in una versione meno ardita, più tradizionale. Un testo che fece scandalo. Una canzone strana, innovativa segnata da continui cambi di melodia e particolare perché caratterizzata da intermezzi parlati.

Una canzone che narra di un tradimento senza pentimento che ha accompagnato in qualche misura la storia di una generazione affascinata dall’idea dell’amore libero ma nata in un’Italia in cui se si tradiva si chiedeva, semmai ipocritamente, “Perdono” (Caterina Caselli), dichiarandosi poco “degno di te” (Morandi), per tornare felicemente e col capo cosparso di cenere “In ginocchio da te” (Morandi); era l’Italia del “si fa ma non si dice”, senza divorzio ma con il reato penale di adulterio, il delitto d’onore e il matrimonio riparatore (ma Franca Viola stava già provvedendo a cancellarlo)

Insomma, era (quasi) “il ’68”, bellezza! In tanti cominciavano a pensare che nulla sarebbe stato come prima. C’erano gli ideali, gli studenti incazzati, i reggiseni bruciati in un rito liberatorio, la protesta americana e planetaria contro la guerra del Vietnam. C’era lo studente James Simon Kunen che raccontava con ironia in “Fragole e sangue” l’occupazione della Columbia University mescolando avventura politica e avventure sessuali; c’erano John Lennon e Yoko Ono che cantavano “Give Peace a Chance” e Richie Havens che a Woodstock urlava un inno alla libertà significativamente intitolato Freedom. Si riscoprivano i poeti della Beat Generation e si mandava a memoria “Bomba” di Gregory Corso. Ed è a questo punto che entra in scena (è proprio il caso di dire) un film.

Perché era sempre il 29 settembre ma del 1983 quando sugli schermi venne proiettato per la prima volta “Il grande freddo” di Lawrence Kasdan. L’epoca delle grandi speranze, delle generose illusioni era alle spalle. Trionfava in America Ronald Reagan e in Gran Bretagna Margaret Thatcher. Il mondo non andava cambiato, andava mangiato o, come recitava la pubblicità di un liquore, “bevuto”. Il motto era quello della Lady di ferro: andate e arricchitevi. Quella generazione o quelle generazioni erano vinte, disperse. In taluni casi perdute nella ricerca di paradisi artificiali o di impossibili rivoluzioni armate. Quel film era il sipario che calava sui sogni di un’epoca mentre la colonna sonora delle vecchie canzoni che avevano ritmato il tempo provavano a riscaldare quella mesta riunione di amici tornati insieme non per liberare il mondo ma per partecipare a un funerale. Cinque anni dopo Patty Smith avrebbe cantato: “People have the power”. Ma il momento era passato, il tempo irrimediabilmente scaduto.

Valentina Bombardieri

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