-di GIULIA CLARIZIA-
Quando si parla del Sessantotto, non c’è bisogno di indicare il secolo. Si dice “Sessantotto e basta”, ed è un privilegio che spetta solo alle date che fanno epoca. Lo fa notare lo storico Mario Tronti, ospite fra i relatori del convegno “1968…2018. Comincia il Sessantotto. Un’idea di rivoluzione” che si è tenuto lo scorso 27 settembre presso la prestigiosa sede dell’Enciclopedia Italiana Treccani a Roma.
L’incontro era finalizzato ad una riflessione storica ma anche aneddotica e personale su quello che ha significato il ’68 per chi lo ha vissuto e per chi no, analizzando la sua connessione con la contemporaneità.
Dopo un excursus storico presentato da Valentina Sereni, presidente dell’associazione Gherush92, che ha mostrato una linea di continuità rispetto alle proteste studentesche nei secoli precedenti al ventesimo, il professore Massimo Pieri, ha condiviso con la platea la sua esperienza personale e la sua commozione nel ricordo di quei giorni. Egli, da giovane professore, fu protagonista di quei mesi insieme agli studenti. Ha ricordato i drammatici momenti delle cariche della polizia, la speranzosa solidarietà che si era creata tra i giovani tutti egualmente insoddisfatti e dunque complici fra loro. Proliferavano i gruppi, i collettivi, e intanto cresceva il potere studentesco.
Un momento storico complesso, ricco di contraddizioni così come lo è la gioventù. Quella che crede ostinatamente, a volte rischiando di cadere vittima delle conseguenze delle sue stesse azioni. Come ha sottolineato Massimo Di Menna, in veste di moderatore del dibattito, bisogna fuggire le banalizzazioni che da un lato glorificano il ’68 e dall’altro lo demonizzano come la causa di tutti i mali della nostra società. Bisogna guardare al fenomeno nella sua completezza, richiamando anche il suo aspetto internazionale. Forse per la prima volta nella storia, i giovani da una parte all’altra dell’Oceano si sono sentiti connessi in una battaglia comune. E Mario Tronti ha sottolineato come il messaggio fu talmente forte, da scalfire anche la cortina di ferro e giungere nella parte orientale dell’Europa, dove si ebbe ad esempio la Primavera di Praga.
Un altro fondamentale aspetto ricordato dai relatori è quello della sinergia che si creò fra giovani e classe operaia. Erano molti, e si misero insieme condividendo i metodi gli uni con gli altri.
Se il clima di contrasto preoccupava la società e la politica, Pietro Nenni – come ha ricordato Di Menna- a quest’ultima attribuì la massima responsabilità annotando sul suo diario il pensiero che se si era arrivati a quel punto di protesta, significava che la politica non aveva dato le risposte necessarie alle esigenze dei giovani. E di lì, la battaglia portata avanti dai socialisti per concedere l’amnistia ai reati commessi durante le manifestazioni.
Il presidente della Fondazione Pietro Nenni, Giorgio Benvenuto, nelle sue conclusioni parla del presente. Delle narrazioni frammentate che si fanno del ’68 e di quanto si sia persa la cultura del cambiamento, il coraggio di accettare provocazioni e di fare proposte. Nel processo di critica, alla pars destruens non segue la pars construens.
Per questo, riflettere sul ’68 è di aiuto alla contemporaneità.
Ed è vero, se si considera che noi giovani abbiamo perso la concezione di cosa vuol dire fare politica, e soprattutto farla insieme. Ad apertura dell’incontro, Di Menna ha sottolineato come nonostante i ragazzi abbiano poche nozioni di storia contemporanea, il ’68 è un periodo noto e di fatto stereotipato. Quanti di noi hanno occupato la scuola, per esempio negli anni del ministero Gelmini (ve la ricordate Maria Stella?) giocando letteralmente a fare il ’68. Abbiamo riciclato gli slogan e la terminologia. Parlavamo di “servizio d’ordine”, ma in realtà eravamo quattro scemi piazzati davanti al cancello. Non avevamo nulla di autentico. Solo una memorialistica tramandata dai genitori ai figli su come doveva essere la protesta. Non poteva che risultarne una pantomima. Però da quel gioco di ruolo abbiamo imparato a stare insieme e anche a scontrarci. E non è poco in questa società in cui lo scontro diretto sta venendo sempre meno, così come i successi delle battaglie del ’68 stanno perdendo valore. Come le assemblee di istituto, davvero poco frequentate se non caricate di qualche ospite alla moda, come se fossero delle conferenze e non dei momenti per discutere di un luogo, la scuola, che appartiene agli studenti.
C’è chi ha detto che il ’68 continua, che il suo spirito è solo sopito e potrebbe risvegliarsi in ogni momento. Non sono d’accordo. Oggi mancano proprio le basi. Ci siamo chiusi in un individualismo estremo e in una pigrizia mascherata da sfiducia nella politica. Non ho mai sentito nessuno alzare la voce per la disoccupazione giovanile, oppure per lo sfruttamento che emerge da questa proliferazione di “mezze” condizioni di lavoro tra stage, tirocini e simili. Molti si lamentano senza mettersi in gioco. È vero, mancano le proposte. Non abbiamo gli strumenti né lo spazio per farle. Ma onestamente, neanche li cerchiamo.
Ma non bisogna lasciarsi andare alla sfiducia. Usciamo dalla mera logica dei tweet e impegniamoci attivamente. Conosco chi dedica intere giornate a farlo, ma sono troppo pochi per avere impatto. Allarghiamo questo dibattito ai giovani, che ne devono essere i diretti protagonisti. Noi, che siamo ipnotizzati dai pixel dei nostri smartphone, abbiamo bisogno di un reale scambio intergenerazionale.
E tu cosa ne pensi? Hai vissuto il ’68 o l’hai conosciuto tramite i ricordi del passato? Raccontaci la tua esperienza nei commenti.