-di RICCARDO LOMBARDI-*
Numerosi compagni mi chiedono se non ritengo che l’associazione dei due concetti di alternativa e di autonomia non sia un ibrido infecondo, Vorrei, in questo mio primo contributo a “tribuna congressuale”, esprimermi con assoluta sincerità coll’animo di chi fa delle confidenze, o se si vuole confessioni.
A mio giudizio, i due concetti, o se così si preferisce le due parole d’ordine, hanno oggi un legame necessario, sicché l’uno non sta politicamente in piedi senza l’altro. Quando sottolineo che questo è vero oggi, voglio dire che non così è stato nel passato. Alla posizione autonomista di fatto per lungo tempo è stata attribuita una qualifica di destra alle volte a torto altre volte a ragione. A torto quando essa resistette allo slittamento stalinista del partito; a ragione quando sostenne la persistenza di un governo detto di centro-sinistra al di là della sia evidente degenerazione rispetto alla proposta originaria e soprattutto allorché promosse (ma con quanta festosa complicità dei nove decimi del partito!) l’operazione nefasta dell’unificazione socialdemocratica.
In tali condizioni è esatto che la posizione autonomista, refrattaria e ostile a ogni ipotesi di unità a sinistra e di collaborazione dialettica col PCI, non poteva che scontrarsi con una posizione di sinistra portatrice della proposta di alternativa.
È mutata questa situazione? Affermo che è mutata e radicalmente da quando il XL congresso adottò la politica dell’alternativa di sinistra: una svolta che, se presa sul serio avrebbe dovuto sconvolgere le vecchie pietrificazioni correntizie, non solo quelle che – come autonomia e sinistra – si reggevano su esplicite politiche, ma anche quelle dimostratesi prive, per talune in un inquieto vagabondaggio, di altro riferimento che non fosse a leader più o meno prestigiosi.
Che questo non sia avvenuto che in parte, nulla toglie al fatto che il dibattito interno nel partito non potesse più riprodurre stancamente i riferimento e che le diverse posizioni non potessero più essere definite in base alle opzioni del passato che col metro della loro adesione (o interpretazione) della strategia dell’alternativa.
Ora si può dare alla strategia dell’alternativa una valutazione più o meno persuasiva rispetto ai tempi e alle tattiche per portarla avanti: ma è incontestabile che essa postula un rapporto con le altre forze di sinistra (e in particolarissimo modo col PCI) di stretta collaborazione e di massima unità possibile e ciò nonostante il contrasto fra strategia dell’alternativa e strategia del compromesso storico: giacché, come ho avuto occasione di dichiarare in epoca non sospetta, né l’una né l’altra strategia sono praticabili se l’azione dei due partiti diverge anziché ricercare le massime convergenze utili e possibili.
Ho forse bisogno di ricordare che al XL congresso proprio a tal fine, e anche per evitare che il contrasto tra le due finalità fosse strumentalito per alimentare un anticomunismo “di sinistra”, proposi l’elaborazione di un programma comune, proposta che non fu adottata per il diniego risoluto di tutte le altre correnti, comprese quelle che oggi ostentano un unitarismo di sinistra che attende di essere verificato nell’unica prova che conta cioè la concretezza dei casi difficili?
Il porre l’esigenza unitaria come necessaria e consustanziale con la linea dell’alternativa non significa né che essa sia facile, né che non faccia correre dei rischi: il rischio è, nella pratica unitaria, di appiattirsi in posizione subalterna rispetto a quella del PCI e ciò anche considerando il rapporto di forza a noi fortemente sfavorevole non soltanto sul terreno della rappresentanza prlamentare, ma quello che per me conta di più, su quella della capacità di mobilitazione e di organizzazione: per cui se non mantenessimo intransigentemente vive ed evidenti nelle parole e nei comportamenti le ragioni non solo della nostra diversa strategia ma quelle del nostro essere portatori di un patrimonio di esperienze e di culture, di principi che non cessa di far sì che i socialisti e i comunisti, anche se alleati siano e debbano restare diversi, ci autodefiniremmo inutili o superflui. Chi parla di “partito unico della classe operaia” deve dimostrare che si tratti di un obiettivo praticamente realizzabile sia pure in tempi mitici e anche se lo fosse, desiderabile. Per quanto mi riguarda, io non penso né l’una cosa né l’altra. Esso, a mio avviso, impoverirebbe sia i comunisti che i socialisti, mentre la dialettica fra di essi in collaborazione unitari arricchirebbe tutta la sinistra.
Ecco la ragione per la quale continuo a ritenere che considerare la “bozza di programma” come piattaforma comune di tutte le tendenze esistenti nel partito per verificare la linea strategica, dividendosi se mai sulle tattiche e sul modo di gestione, sarebbe una buona cosa e che è indispensabile per ciò fare un congresso ravvicinato.
Per questo aderii alla mozione n. 1 che queste due esigenze riassumeva. Devo aggiungere tuttavia che non l’avrei fatto se la mozione fosse stata semplicemente la mozione Craxi-Signorile, cioè la mera congiunzione delle due vecchie correnti reviviscenti in un connubio che, indipendentemente dalla buona o mala fede, sarebbe apparso una precostituita posizione esclusiva nella gestione del partito. Ho dato la mia adesione (che confermo) quando ho verificato la convergenza dei compagni di diverse precedenti estrazioni correntizie, gli Arfè, i Giolitti, i Coen (e tanti altri, cito a caso) che ho imparato a rispettare per la mancanza di settarismo congiunta a rigore di militanza, pur avendo avuto con loro frequenti occasioni di contrasto.
Tale convergenza mi dava la ragionevole fiducia che appunto nel comune impegno a fare del programma la piattaforma su cui modulare le deliberazioni congressuali sulle questioni immediate si potesse trovare un consenso largamente unitario senza prefabbricati unanimismi, senza prefabbricate esclusioni.
È davvero un peccato che questa occasione realmente e non formalisticamente unitaria non sia stata colta in nome di una pregiudiziale sfiducia nell’attuale gestione e in nome di considerazioni ideologiche. Della gestione del partito, dal MIDAS a oggi, ricorderò che, pur consenziente nella necessità di un ricambio non lo fui sulla soluzione data a quella necessità. Non votai per la segreteria Craxi, ma vivaddio, pur riconoscendo un mare di difetti, di omissioni, di errori, che non ho mancato di denunciare puntualmente nelle sedi proprie, bisogna essere ciechi per non vedere che il partito da allora qualche passo avanti lo ha fatto: e dato lo squallore del punto di partenza i passi avanti anche modesti sono i più difficili, ma anche i più significativi.
Come si fa a ritenere di poco conto la reviviscenza di una elaborazione culturale e politica di tutto rispetto che si impone alla considerazione delle altre forze politiche (l’ “Avanti!” rinnovato, “Mondoperaio” divenuto una sede di elaborazione fra le più vive della sinistra, l’Istituto socialista di storia) e soprattutto l’essere riusciti in tempi ristretti alla elaborazione di un programma, aspirazione mitica per decenni di tutto il partito?
Come non ammettere che in tema di unità a sinistra e di programma comune delle sinistre le cose cominciano a muoversi, a giudicare almeno dalle prime risposte che da parte comunista sono venute alla bozza di programma e da uomini come Cerroni, come Chiarante, come Chiaromonte?
Come non riconoscere che il problema del superamento della Carta di Francoforte nello statuto dell’Internazionale socialista è stato, finalmente!, posto da questa segreteria?
Non idealizzo nessuno e posso facilmente esibire una lista di errori, di contraddizioni e di omissioni, ma francamente preferisco chi sbaglia anche spesso, muovendosi, a chi sbaglia sempre perché rimane immobile.
Sul versante ideologico alcuni compagni hanno contestato il programma con iniziale veemenza distruttiva venuta successivamente a consigli più miti, in nome dell’ortodossia marxista.
Non presumo certamente d’essere un marxologo, né un improvvisato libero docente di marxismo: ma mi illudo di conoscere – non attraverso “vulgate” o “bigini” – del pensiero di Marx e di quanto si è pensato in proposito in oltre cento anni quanto basta per capire che allo stadio cui è giunta quella riflessione è difficile dirsi semplicemente marxisti senza ulteriore e rigorosa specificazione. La straordinaria attualità e inesausta fecondità di grande parte del pensiero di Marx (specie dopo la scoperta dei Grundrisse) fa sì che essere marxiani ed essere marxisti non vuol dire sempre la stessa cosa perché non c’è un solo “marxismo” ma diversi e anche opposti. Oggi a nessuno sarebbe permesso, neanche a Rodrigo de Castiglia (leggi Togliatti), usare un sarcasmo sprezzante sulla “sprovvedutezza” di un Franco Fortini, come poté avvenire negli anni cinquanta quando secondo Lefebvre “il marxismo moriva di noia”. E restringere gli strumenti dfi analisi del capitalismo monopolistico di oggi a quelli apprestati da Marx per il capitalismo concorrenziale del suo tempo, inibendosi o ritenendo non necessari l’uso degli strumenti analitici elaborati dopo francamente farebbe supporre che certi compagni hanno il marxismo facile! Giacché ho rispetto per questo compagni faccio invece loro credito di ricorrere a un’arma impropria per il nobile scopo di preservare così il partito dai pericoli di opportunismo presenti quando “si abbandonano i principi”.
Fu questa l’illusione di Guy Mollet quando nell’immediato dopoguerra in Francia defenestrò Daniel Mayer dalla guida della SFIO e lo sostituì in nome appunto dell’ortodossia marxista. Si sa come le cose finirono: l’opportunismo sistematico fu la caratteristica più evidente di quel partito (fino a Suez, fino alla tortura di stato in Algeria!) sempre giustificata in nome dei principi.
Certamente pratiche opportunistiche anche da noi sono tutt’altro che mancate e ad alcune ho accennate, ma almeno a nessuno venne in mente di giustificarle in nome del marxismo.
* Articolo apparso sul’ “Avanti!” del 19 febbraio 1978. Da Riccardo Lombardi: “Scritti politici 1963-1978. Dal cemtro-sinistra all’alternativa” a cura di Simona Colarizi, Marsilio II edizione 1980. Il testo va inserito nel dibattito che precedette il congresso che si svolse a Torino dal 30 marzo al 2 aprile del 1978