Guido Ceronetti: l’ultimo incontro con un uomo grande

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

Guido Ceronetti: non ho memoria nitida di quando ne feci conoscenza. Forse il primo incontro avvenne attraverso le parole che gli dedicò Elémire Zolla. Eccole: “Voglio spiattellare un segreto di mestiere di Guido Ceronetti: appena può, si pianta davanti a questi rebus [le pitture di Hieronymus Bosch] e si lascia incantare.  Accade di conseguenza che le parole gli si arriccino, scattino proiettando aculei, mettano strane elitre e ronzino per l’aria o si contorcano tutte come queste piante di Bosch, e poi si dispongano in periodi circolari come questi cavalleggeri che caracollano in tondo sulle più strambe cavalcature. Audaci diventano le metafore di chi viene a imbeversi di Bosch, simili a questi cristalli, quarzi, basalti, ossi appollaiati l’uno sopra l’altro a comporre montagne incredibilmente in bilico”.

Descrizione che fece penetrare in me la passione. Ma che non si tramutò subito in intensa esperienza di lettura.

Per chi non ha familiarità, Guido Ceronetti non è fra quegli autori dall’esperienza esclusiva, nelle cui pagine ci si annulla dimentichi di tutto il resto. Ho sempre nutrito l’impressione ch’egli prediligesse l’accostarsi alle sue pagine in termini discreti, timidi e delicati.

Com’era lui del resto. A vederlo da vicino, smilzo e minuto, pareva fragile, indifeso. Non necessitava d’un fisico imponente per imporsi. Gli bastava la sua mente, famelica e vorace. Leggeva e apprendeva qualsiasi cosa gli stimolasse un minimo interesse. Ma non accumulava dati o informazioni. Tutto passava al vaglio d’un severo e rigoroso setaccio. Ed era una selezione disarmata di regole o ideologie. Essa avveniva attraverso un’opera di ritraduzione intima d’ogni stimolo esterno, in ciò applicando quanto le somme filosofie d’oriente – indiane soprattutto – raccomandano di tenere a mente: che il mondo che abitiamo altro non è che una nostra proiezione. Ed è qui che l’illusione della realtà alligna.

La scrittura di Ceronetti è libera, e mai la si potrà inquadrare in stinte categorie. Il fatto stesso di non essere entrato in una storia della letteratura italiana lo rendeva felice: “Finora mi è andata bene”, affermava compiaciuto.

Viaggiatore instancabile, non usciva di casa senza un libro e un taccuino su cui annotava tutto. Nulla gli sfuggiva: dettaglio, sfumatura o pettegolezzo che fosse. A rileggere il suo “Un viaggio in Italia”, o “Il silenzio del corpo” o il recentissimo “Per le strade della Vergine” non ci si trova di fronte a frammenti di diario zeppi di annotazioni che poco appassionano. Sono pagine in cui viene restituita l’esperienza che egli fa del mondo esterno. E quanto salvifiche sono queste opere per coloro che si affannano a rincorrere futili realtà: esse ci insegnano a porre attenzione sulla nostra persona, a meditarvi così scoprendo che quanto d’attorno a noi rotea non è che vacua cosa.

Da tempo inseguivo Ceronetti. Desideravo incontrarlo e conversare con lui. Tentai una prima volta chiamandolo a casa. Mi rispose con quella sua vocina così esile ma certa di sé. Gli proposi un’intervista. Non me la negò, ma chiese di poterla realizzare più in là nel tempo, perché in quel periodo non si sentiva granché bene. Impossibile opporsi ad una richiesta così gentilmente avanzata.

Trascorse qualche mese e lo richiamai. Fu la volta decisiva. Mi disse di andare a Cetona, a casa sua, l’indomani nel pomeriggio. Era il 10 giugno di quest’anno.

La casa di Ceronetti era piccola ma accogliente nella sua austerità. All’entrata ecco stagliarsi una stanza rettangolare piena di libri, alla pareti e al centro. Sulla sinistra, vicino alla finestra, un tavolino con sopra una macchina da scrivere: suo luogo di lavoro, dove pagine che resteranno nella memoria di molti – a dispetto dei banali benpensanti – hanno preso forma parola dopo parola.

Per l’intervista ci si accomodò nella piccola cucina subito dopo il salotto. Ceronetti camminava lentamente. Con calma si sedette. Congiunse le mani intrecciandole e il dialogo ebbe inizio.

Non vorrei peccare di presunzione, ma credo sia l’ultima intervista ch’egli concesse. Immeritatamente ho avuto questo onore.

Da Giugno la pubblico solo ora. Perché? Non saprei dirlo. Sentivo che questa non sarebbe dovuta essere la solita e banale intervista da far uscire a ridosso di qualche ricorrenza o pubblicazione.

Certo è che, a pochi giorni dalla dipartita di un uomo di grande, immenso valore – uno degli ultimi rimasti – riudire la sua voce, immaginandola nella mente scorrendo le sue parole, non può che essere un salvifico toccasana per questi bui tempi in cui viviamo.

E che saranno sempre più oscuri. Perché una voce come quella di Ceronetti difficilmente ci sarà ancora.

Maestro Ceronetti, vogliamo dirlo che lei è sicuramente il più importante e significativo scrittore d’Italia?

Addirittura! Via, non esageriamo.

Io la penso così. Sinceramente. Per lei ho davvero una sconfinata ammirazione.

La ringrazio molto.

Mi piacerebbe iniziare questa nostra chiacchierata con alcuni suoi ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza trascorse a Torino: cosa rammenta?

Dell’infanzia e dell’adolescenza ho memorie nitide. Seppur lontani nel tempo, come periodi. Ricordo più questi momenti che la mia vita ad Albano Laziale, da dove lei viene, per esempio.

Il primissimo ricordo del suo periodo torinese qual è?

La prima cosa che rammento è la forte passione politica. Mi iscrissi al Partito Socialista, che in tempo di guerra fece un’unione funesta coi comunisti, prendendo il nome di PSIUP – Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Lo scopo di quell’operazione fu, credo, di vincere le elezioni solo per dare il potere al PCI, o al limite di condividerlo insieme. Ricordo che allora Nenni venne anche festeggiato per essere andato a Mosca a ritirare il Premio Stalin.

Come descriverebbe gli anni di cui sta parlando?

Erano gli anni più terribili dello Stalinismo. E i comunisti: delle furie scatenate!

Com’era la Torino di quel periodo?

Torino era la casa editrice Einaudi, totalmente asservita al PCI. Altro che indipendenza!

L’Einaudi non aveva autonomia?

C’era la rivista Il Politecnico: la sola ed unica oasi di libertà che il partito concesse agli intellettuali. Io la prendevo sempre, e la collezionavo. Però sotto quelle polpette di parole bisognava digerire tutta quell’ideologia nefanda!

Cambiò nel tempo la situazione o rimase pressappoco così?

Occorsero anni prima di disincantarsi. Ci vollero i fatti d’Ungheria e la scissione di Antonio Giolitti – uno dei più giovani dirigenti del PCI di allora – per districarsi da quel viluppo negativo. Si trattava di una vera e propria setta modellata sullo stile di quelle medievali.

Ha qualche ricordo dei dirigenti del PCI di allora?

Ricordo dei nomi: Scoccimarra, Longo – il quale, nel Sessantotto, si dichiarò non d’accordo con quanto stava avvenendo in Cecoslovacchia, dove uccisero selvaggiamente delle persone di valore solo perché contrari a ciò che a Mosca veniva stabilito. Fu davvero un periodo orrendo, mi creda. Ma al contempo, debbo dire, anche entusiasmante.

Davvero?

Beh, la Primavera di Praga fu un avvenimento significativo che accese gli animi di tutti quelli, come me, che non condividevano l’ideologia comunista. Come non entusiasmarsi al ricordo di Dubčeck?

Il quale, poverino, fece una brutta fine.

Perché?

Lo lasciarono vivere. Ma lo mandarono a fare l’ambasciatore in Mongolia.

Lei aveva, quindi, una forte passione per la politica.

Evidentemente sì. Dato il fatto che ricordo abbastanza, in modo più o meno nitido, molti particolari.

Lei è stato un raffinatissimo e magistrale traduttore dall’ebraico. Come le nacque la passione per questa lingua?

La passione per l’ebraico nacque in me dal suono.

E dov’è che udì, per la prima volta, le sonorità di questa lingua?

Un giorno andai ad una cerimonia, a Torino, al Maria Letizia, un istituto femminile scolastico che forse esiste ancora. E lì per la prima volta udii questa lingua. Ma ancor più di quella circostanza, significativo si rivelò essere un programma radiofonico trasmesso dalla RAI in ebraico. Ricordo che si leggevano passi in una lingua di cui nulla comprendevo. Però quelle parole, per me allora oscure, si infissero da subito nella mia memoria e penetrarono in me, nella mia più profonda intimità.

Quindi tutto cominciò da una fascinazione misteriosa ma intensa?

 Sì. E ancor più questa passione per l’ebraico si accentuò quando venni a sapere dell’orrore della Shoah commesso dai nazisti.

Che rammenta di questa triste pagina della nostra storia?

Le racconto un episodio per evocare la barbarie che, persone come noi, furono costrette a vivere solo perché ebree. Lo appresi da un piccolo libro di ricordi edito da Paravia. Lo scrisse mia suocera. E vi si narra la vicenda della cattura di una famiglia ebrea torinese, da parte delle SS, che avvenne su denuncia della portinaia del palazzo. Mia suocera e il marito vennero catturati. Poi c’erano le due bambine: Erica – mia moglie – e sua sorella Rossella. Erica aveva pochi mesi, e difatti non ricorda nulla di quanto avvenne. Ebbene, le SS intimarono alla portinaia che sporse denuncia di attendere il loro ritorno per prendere anche le due bambine. Lei attese che i soldati andassero via per trarle in salvo.

In che modo?

Portandole al suo paese nel cuneese, dove vissero protette. Anche perché non l’avevano mica scritto in fronte che erano due bimbe ebree.

Una storia che ha dell’incredibile.

Forse quei soldati diedero quell’ordine alla portinaia affinché le due bimbe potessero salvarsi.

Cosa glielo fa pensare?

Perché non tornarono per cercarle. Sono i misteri di chi non arriva al punto di massima crudeltà. Qualche giorno fa sul Corriere si è ricordata la conferenza di Wannsee, nel corso della quale si decise lo sterminio degli ebrei. Heydrich fu uno dei protagonisti della cosiddetta “Soluzione finale”: era un uomo ributtante, che però aveva l’espressione del bimbo innocente. Ciò che lo rendeva ancora più riprovevole.

Fu, certamente, una pagina bruttissima della storia dell’umanità. Una delle più orrende di sicuro.

Anche in Cecoslovacchia vennero sterminati molti ebrei ad opera dei comunisti. Al confronto, le deportazioni ad Auschwitz risultano insignificanti.

Davvero?

Mi creda: è un orrore straziante che non si riesce a sopportare. È tutto raccontato in un libro pubblicato da Adelphi di recente: Sotto una stella crudele, di Heda Margolius Kovály. Ecco: le ho raccontato queste cose, messe assieme un po’ alla rinfusa, per dirle che la passione per l’ebraico mi nacque da tutto ciò che vissi: direttamente e indirettamente.

Nei suoi ricordi che immagine ha dell’Italia postbellica?

In Italia le cose presero ad andare meravigliosamente. Essendo, da Yalta, stata assegnata all’Occidente, noi riuscimmo a scampare all’egida comunista. Non so quanto adesso la situazione sia rosea. Onestamente parlando: la manifesta amicizia di Salvini con Putin non mi tranquillizza. Staremo a vedere.

Da quanti anni vive qui a Cetona?

Subito dopo essere andato via da Albano Laziale, nel 1983. Quindi da trentacinque anni.

Cosa la spinse a cambiare luogo in cui vivere ed abitare?

Un malcostume che stava iniziando a prendere piede e a diffondersi ad Albano. Mi ricordo che passeggiavamo per le strade insieme a mia moglie; i giovani ragazzi ci passavano accanto e, vedendoci camminare mano per la mano, ci ruttavano addosso a mo’ di sfregio. Compresi che sarei dovuto andarmene via il prima possibile.

Cos’è per lei l’età che avanza?

La vera vecchiaia, per me, è iniziata al compimento dei novant’anni. Esattamente il giorno dopo il mio compleanno.

Perché?

Sarà stato per via della forte emozione provata per essere giunto ad un traguardo così importante: fatto sta che ho avuto una delle tante ischemie transitorie. Dalle quali, però, mi sono sempre ripreso.

Lei ha fondato il Teatro dei Sensibili…

Sì, certo. Per quel che riesco, ancora facciamo spettacoli col Teatro dei Sensibili. Uno è stato fatto proprio il giorno del mio novantesimo compleanno.

Lei, per tutta la vita, si è dedicato ad un giornalismo colto e raffinato. Cominciò collaborando alla Stampa

Dove da molti anni non scrivo più.

Come mai?

Mi cacciò via Calabresi.

E perché?

Non lo so. Mi ha letteralmente perseguitato. Non appagato, mi ha mandato via anche da La Repubblica, dove collaboravo da qualche tempo, non appena ne è divenuto direttore. Pensi che al museo storico de La Stampa, con la quale ho collaborato dal 1974, neanche esisto. Non sono nominato né ricordato. Ormai l’unico giornale per il quale scrivo, quasi gratuitamente, è Il Corriere della Sera.

Che ne pensa della cultura italiana contemporanea?

Non conosco approfonditamente ciò che circola di questi tempi, ma l’impressione che ho è che ormai sia rimasto davvero poco. Per esempio un uomo che valeva molto era Elémire Zolla. Abitavamo vicini, lui stava a Montepulciano. Per un periodo ci siamo persi di vista, però si condividevano interessi e gusti. Il fatto che ora, purtroppo, a livello letterario non si abbia granché, mi autorizza a scrivere per il Corriere senza venire pagato. Pazienza. Va bene lo stesso. Ultimamente non ho scritto tanti articoli.

Perché?

Nel darmi lavoro, debbo dire, non sono stati molto prodighi. Forse per paura di dovermi pagare. Non so.

Tradurrebbe ancora qualcosa dall’ebraico?

Ho tentato. Ma ora non mi sentirei più di farlo. Anche perché si tratta di un lavoro lungo e faticoso. La traduzione che feci del Libro dei Salmi – pubblicata da Einaudi la prima volta – decisi di ripeterla di nuovo. Vi lavorai in un’altra casa, se la memoria non mi inganna. Riuscii a portarla a termine in tre in anni se non di più. Adesso proprio non riuscirei ad affrontare una simile impresa.

Quando le nacque la passione per la scrittura?

L’ho sempre avuta.

Cosa vuol dire, per Guido Ceronetti, scrivere?

Vuol dire scrivere in poesia. Io non mi sono mai ritenuto un prosatore. In tal senso, sono stato tristemente sfortunato. Perché non ho mai incontrato qualcuno che volesse pubblicare i miei versi. Malgrado ciò, qualche soddisfazione in tal senso me la sono presa, facendo uscire alcune mie raccolte poetiche.

 

 

pierlu83

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