Asselborn, il Lussemburgo e le “due destre” in Europa

-di MAURIZIO BALLISTRERI-

Forse il ministro degli Esteri lussemburghese Jean Asselborn nell’apostrofare Matteo Salvini con la frase “merde alors”, durante un incontro istituzionale, si sarà sentito un novello Cambronne, il generale di Napoleone che rispose all’intimazione degli inglesi di arrendersi dopo la sconfitta di Waterloo con la stessa parola triviale (ma l’interessato, barone e visconte, smentì sempre il fatto).

Ma volgarità a parte, ciò che Asselborn si doveva risparmiare era il riferimento all’emigrazione italiana nel suo paese, uno Stato-cuscinetto di tipo monarchico retto da un granduca tra Germania, Francia e Belgio, a lungo paradiso fiscale, considerato lo sfruttamento subito dai nostri connazionali; infatti, nel dopoguerra centinaia di migliaia di italiani sono stati sfruttati (e disprezzati!) in Lussemburgo, in Germania, in Francia, in Svizzera e in quel Belgio dove avvenne la tragedia di Marcinelle, secondo il modello che oggi definiamo di dumping sociale: i tanti emigrati italiani, dovevano svolgere i lavori più umili, più pericolosi, in particolare nelle fabbriche chimiche, i lavori più pesanti nel campo della metallurgia o dell’industria dei mattoni. Emigrazione come sinonimo di sfruttamento e oppressione, con la negazione dei diritti e, in definitiva, della stessa libertà. Come ha ricordato Mars Di Bartolomei, il presidente del Parlamento del Lussemburgo di origine chiaramente italiane, parlando dell’emigrazione dei suoi avi ha detto: “oggi i lussemburghesi mangiano italiano, vestono italiano, fanno le vacanze in Italia ma è un amore recente. Allora l’Italia era un Paese sconosciuto, abitato da gente diversa per lingua e cultura. Quando ero piccolo, negli anni 60, ci chiamavano con disprezzo ‘spaghetto’”.

Nella polemica teatrale di Asselborn, nonostante la sua appartenenza al partito socialista di quella Nazione, nessun riferimento al tema dei diritti sociali quale discrimine storico dalle destre, con il riproporsi della “sindrome di Macron”, il presidente francese che incarna il modello del politico post-moderno: mediatico e privo di riferimenti ideologici.

Ancora una volta torna il paradigma delle “due destre” su scala europea, che si potrebbe estendere anche alle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti con la competizione tra Donald Trump e Hilary Clinton, nel nostro paese elaborato dal sociologo Marco Revelli e fondato su di una dialettica politica tra una destra cosiddetta “sovranista”, un tempo definita come nazionalista e plebiscitaria, e una destra liberista e tecnocratica ammantata di cosmopolitismo autodefinita “sinistra”.

E così in Francia la competizione per le presidenziali è avvenuta tra una destra sostenitrice della sovranità e dell’identitarismo nazionale, con reminiscenze della “grandeur” transalpina e del gaulllismo e un’altra con tecnocrati “prestati alla politica”, in specie un banchiere che ha lavorato per Rothschild (una delle famiglie ritenute dai “complottisti” ai vertici del “governo occulto del mondo”). E in questa dialettica si è consumata la sostanziale scomparsa dalla scena politica francese dei socialisti, i quali abdicando alla loro funzione storica di forza di sinistra riformista, candidata al governo in rappresentanza dei ceti popolari, hanno perso il contatto con la realtà sociale e sono affondati, come del resto è avvenuto con il Pasok in Grecia, sino all’Italia in cui il Pd al tempo guidato da Renzi ha promosso politiche economiche e sociali di impronta liberista, dal Jobs Act alla cosiddetta “Buona scuola”, bocciate dai cittadini nel voto per il referendum costituzionale, che ha impedito la deriva oligarchica all’Italia, e con le elezioni politiche dello scorso 4 marzo. Un Partito democratico distante da ogni opzione politica e programmatica riformista e socialdemocratica, che stancamente ripropone l’ordo-liberalismo tedesco di Frau Merkel, basato su aumenti dissimulati delle tasse, riduzione della copertura della previdenza pubblica e compressione dei diritti del lavoro, secondo il modello di stabilizzazione economica già imposto a livello planetario dalle politiche del Fondo Monetario Internazionale e dalle agenzie di raiting e in Europa dal monetarismo tedesco.

Una destra liberale liberista o mercatista, alfiere dei processi economici di globalizzazione e la libera circolazione finanziaria dentro e fuori i confini delle Nazioni, ostile allo Stato che regola l’economia e favorevole a smantellare i diritti sociali e una destra conservatrice e tradizionalistica, “Dio, Patria e Famiglia”, che trae i suoi consensi proprio dagli sconvolgimenti sociali che un capitalismo deregolato ha generato: disoccupazione e precarietà, declino di intere comunità, impoverimento del ceto medio e secessioni sociali.

E l’Italia conosce questa transizione senza fine nella virtualità prodotta dal dominio dei social, cui ha fatto da contraltare il tramonto di ideologie, partiti, programmi, marginalità della stampa tradizionale, con il vuoto pneumatico di una sinistra ammalata di politicismo, distante dai ceti e dalle classi storicamente rappresentate, tanto popolari che intellettuali; una sinistra immemore della lezione di Antonio Gramsci sul rapporto tra lavoro e intellettuali visto in una prospettiva nazional-popolare e progressiva.

Il dramma è che non si intravedono tempi migliori.

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

Rispondi