Globalizzazione, virtuosa e perversa

-di FRANCO CAVALLARI-

Una trentina di anni fa, l’avvento di un profondo processo di globalizzazione era considerato dalla maggior parte degli osservatori in termini estremamente positivi. Nel 1995 si era costituita l’organizzazione mondiale del commercio (WTO) che introduceva nel commercio internazionale il principio di legalità con il quale si proponeva di consentire a tutti i partecipanti di trarre benefici su un piano di parità, garantendo loro la prosperità economica.

Ma già nel 1999, nella riunione di Seattle dedicata al negoziato multilaterale per ampliare la liberalizzazione dei commerci emersero le prime criticità. La concorrenza dei Paesi emergenti, come la Cina, metteva in pericolo i posti di lavoro degli operai dell’occidente industrializzato; nei Paesi in ritardo nello sviluppo la produzione agricola risentiva della concorrenza dell’agricoltura statunitense, ma anche di quella europea e di altri Paesi arretrati; in Europa in nome della globalizzazione aveva già preso piede un progressivo indebolimento delle tutele dei lavoratori.

Qualche anno più tardi (2004), le conclusioni formulate dalla Commissione istituita in seno all’Organizzazione internazionale del Lavoro (Oit ) costituita a Ginevra nel 1919, prendevano atto di una situazione tutt’altro che edificante sentenziando :”l’attuale processo di Globalizzazione sta producendo situazioni di squilibrio, sia tra i diversi Paesi, sia all’interno di ciascuno di essi. E’ vero che si crea ricchezza, ma  troppi paesi e troppe persone, oltre a noin avere voce in capitolo nelle decisioni che alimentano questo processo,  non ne traggono alcun beneficio” .

Per misurare gli effetti della globalizzazione, Branko Milanovic, un eminente economista del FMI che studia il fenomeno da molti anni, ha riportato in una distribuzione mondiale dei diversi livelli di reddito famiiare reale pro capite, misurato in dollari del 2005 relativa al periodo 1988-2008, gli aumenti percentuali conseguiti da ciascun livello. Il grafico, che assume una forma somigliante ad un elefante, indica che il minimo dei guadagni percentuali riguarda le classi di reddito appartenenti ai percentili da 5 a 10 (coda dell’elefante A) e ai percentili tra 70 e 80 (parte bassa della proboscide C), mentre i guadagni percentuali più elevati si addensano intorno al reddito mediano della distribuzione, ai percentili tra 40 e 60 (gobba dell’elefante B) e al percentile tra 99 e 100, ossia dall’1%. più ricco (parte ascendente della proboscide D).

elefante corretto Odf.JPG

Da questa descrizione sintetica emerge un quadro che conferma la contraddizione  fondamentale della Globalizzazione: per un verso, ha tratto fuori dalla povertà più di due miliardi di persone, quelle appartenenti alle famiglie della fascia di reddito pro capite intorno al reddito mediano (50%), principalmente la classe media della Cina, dell’India e dell’Indonesia; ma, per altri versi,  ha lasciato nell’indigenza le famiglie più povere del globo, (dal 5 al 30%), costituita prevalentemente dalla classe più povera dei Paesi dell’Africa e  dell’America latina.

Un’altra indicazione interessante concerne la contrapposizione delle classi medie appartenenti a zone geograficamente ed economicamente molto lontane: da un lato la classe media dei Paesi dell’Asia, che hanno visto aumentare notevolmente il loro reddito pro capite (B), e, dall’altro lato, la classe media dei Paesi appartenenti al mondo industrializzato (più ricca della precedente in quanto spostata a destra della distribuzione), che hanno visto quasi azzerarsi gli aumenti del reddito pro capite (C). Ne consegue una potenziale tensione internazionale in quanto il grande avanzamento

della classe media in Asia può, in una certa misura, considerarsi il “contro altare” della stagnazione dei redditi della classe media dei Paesi  industrializzati.

Ai fini delle diseguaglianze, molto significativa è anche l’impennata dei guadagni relativi ai redditi globali dell’1% più ricco (D), appartenente in massima parte alle economie più sviluppate (per una metà agli USA e per 2/3 del rimanente all’Europa industrializzata e al Giappone). Questa disarmonia, frutto in gran parte della Globalizzazione, costituisce il problema cruciale, sia con riguardo agli equilibri “geopolitici” complessivi,  sia per quanto si riferisce alla coesione sociale e democratica dei Paesi industrializzati che vedono aumentare notevolmente le diseguaglianze interne. Con riferimento agli squilibri “geopolitici” è significativo che lo stesso FMI, un caposaldo del capitalismo internazionale,abbia evidenziato lo strapotere dei Paesi più industrializzati derivante dalle attuali regole della globalizzazione; un aspetto che rappresenta il nodo cruciale dei i lavori in corso nel WTO per il varo di nuove regole della Globalizzazione.

  Su un piano generale, va rilevato innanzitutto che si tratta di un processo le cui origini vengono  da tempi lontani, sviluppatosi a partire dai primi scambi commerciali della storia fino a trovare una piattaforma dottrinale nel ‘700 con la teoria dei costi comparati di Ricardo. Da allora, la sua intensità ha assunto velocità, fino a divenire un fenomeno epocale inarrestabile ai nostri giorni, in un mondo che ha assunto nel campo tecnologico e scientifico le connessioni e gli assetti di un villaggio globale. E vano sarebbe il tentativo di arrestarne il corso ricorrendo alle piccole patrie del sovranismo dei vari paesi, ciascuno intento a proteggere la propria economia con i dazi doganali e le svalutazioni competitive delle singole monete.

E’ opinione della maggior parte degli economisti, che la Globalizzazione abbia le potenzialità per recare grandi benefici, sia ai paesi sviluppati industrialmente, sia ai paesi in ritardo nello sviluppo economico. E  i gravi squilibri sui livelli del reddito pro capite che ha provocato non siano riferibili tanto alla Globalizzazione in se, quanto al modo con cui essa è stata gestita. Ma secondo teorie economiche consolidate alcuni problemi sono congeniti alla Globalizzazione, come ad esempio la tendenza all’aumento delle diseguaglianze nei paesi industrializzati avanzati in ragione della diminuzione dei salari dei lavoratori meno qualificati; ed è compito della politica mitigarne gli effetti,  accompagnando questa trasformazione.

Per sommi capi, i difetti di gestione di un sistema che alcuni hanno definito “predatorio” nascono dal fatto che i paesi dominanti antepongono i valori materiali ai valori universali, come la tutela dell’ambiente, il rispetto della vita umana, il benessere dei cittadini, la salvaguardia dell’occupazione ecc.  Ne conseguono  regole  inique che hanno favorito i Paesi industrializzati, privando i Paesi in via di sviluppo della loro autonomia in settori cruciali per il loro sopravvivenza. Ciò che i Paesi in ritardo non accettano è che la globalizzazione sia stata usata per esportare nei loro Paesi una versione dell’economia di mercato ancora più estrema del modello americano a vantaggio delle grandi multinazionali e a scapito della lotta alla povertà e  delle classi medie.

Favorire il cambiamento delle regole in senso funzionale ad una Globalizzazione più equilibrata non sarà compito facile, poiché, com’è naturale, i “potenti” che traggono vantaggio dalla situazione attuale opporranno resistenza al cambiamento; e secondo alcuni, come ad esempio l’autore dell’elefante prima descritto, la globalizzazione continuerà a distribuire i suoi vantaggi in modo iniquo. Ma per la maggior parte degli osservatori, un tasso di povertà così elevato in un’area che copre circa 1/3 della superficie terrestre abitata preoccupa tutti. Alcune  riforme, sia pure frammentarie ed incomplete, finiranno per imporsi, perché la liberalizzazione dei mercati finanziari ha prodotto una grande instabilità nei paesi in ritardo, senza apportare alcun aumento della crescita, mentre, malgrado alcune cancellazioni dei debiti, molti Paesi tra i  più poveri dell’Africa non riuscivano a far fronte al servizio del debito.

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

Rispondi