8 settembre: la fantasiosa lettura di Giuseppe Conte

-di ANTONIO MAGLIE-

Va bene la demagogia populista, ma la lettura della storia, soprattutto se a compierla è un uomo al vertice delle istituzioni, dovrebbe assumere caratteri obiettivi. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, respirando evidentemente aria di casa (l’inaugurazione a Bari, cioè nella sua regione di origine, della Fiera del Levante), si è lasciato andare a un paragone tra il presente e l’8 settembre che non solo è lontanissimo dalla realtà, ma la distorce totalmente in maniera strumentale solo per attribuire al governo un ruolo storico che, in realtà, ancora non ha. Potrà averlo in futuro, ma al momento non lo ha.

Ha detto il presidente del consiglio: “Negli anni successivi all’8 settembre 1943 i cittadini italiani hanno sormontato difficoltà a costi di sacrifici inimmaginabili e lasciando in eredità un paese ricco e avanzato, rispettato nel mondo, l’hanno fatto motivati nella fiducia nel domani… Negli anni questo spirito si è affievolito. Vogliamo rianimare quello spirito di intrapresa, quella forza morale che nel secondo dopoguerra ha fatto grande questo Paese”. Su una sola cosa ha pienamente ragione: il fatto che la fiducia del Paese è ormai ridotta al lumicino. Ma la situazione è completamente diversa.

Tanto per cominciare, l’8 settembre l’Italia era un paese diviso, Roma una capitale occupata, le fabbriche e i lavoratori al nord erano costretti a lavorare per la Germania, essendo il diritto di sciopero vietato chi si asteneva dal lavoro veniva o fucilato o mandato nei campi di concentramento in Germania, il Paese, come ha spiegato, tra gli altri, lo storico Claudio Pavone, era il palcoscenico di tre guerre (patriottica, civile e di classe) e la Resistenza veniva animata da un manipolo di uomini, ventimila o giù di lì (aumenteranno rapidamente), prevalentemente concentrati in Piemonte.

Si è parlato spesso nel dopoguerra (ma forse questo al presidente del consiglio, aspirante a una cattedra di diritto privato alla Sapienza romana, sfugge) di “morte dello Stato” con il Re che da Ortona si imbarcava sulla nave “Baionetta” per raggiungere Brindisi in compagnia del capo del governo di allora, Badoglio, del figlio Umberto II e praticamente dello stato maggiore della difesa, a cominciare dal generale Roatta il cui nome è impresso in maniera indelebile nella desolante vicenda della mancata difesa di Roma.

Spesso Norberto Bobbio che alla Resistenza partecipò nelle file del Partito d’Azione ha sottolineato che in realtà l’8 settembre segnò la morte della Patria ma anche la nascita dell’amor di Patria, proprio grazie a quel piccolo gruppo di uomini che decise di sacrificare la vita in nome di un ideale di libertà che la potesse rendere degna di essere vissuta. La rinascita del Paese, quel che avvenne dopo, le stesse difficoltà ad essere accettati tra i Paesi che avrebbero dovuto attingere ai quattrini del Piano Marshall (l’amministrazione Truman diffidava di De Gasperi e soprattutto della fedeltà fiscale degli italiani tanto è vero che pretesero una riforma del sistema che non venne realizzata) fanno parte di un’altra storia, non dell’8 settembre e non possono venire confuse solo per alimentare demagogicamente il mito del governo del cambiamento.

Perché poi bisognerebbe anche dire che la spinta al boom economico avvenne sull’onda di una congiuntura mondiale estremamente favorevole e che la trasformazione sociale degli anni Sessanta venne favorita dal vento riformista del centro-sinistra frenato dagli interessi immobiliari, dalle nascenti trame eversive, dal Piano Solo, dai programmi del generale De Lorenzo che aveva un notevole ascendente sull’allora presidente della Repubblica, Antonio Segni. Dall’8 settembre nacque quello che alcuni hanno definito il “secondo Risorgimento”, impastato con il sangue di tutti coloro che decisero di restituire un minimo di onore a un Paese che in quel momento quasi non esisteva diviso com’era tra i tedeschi da un lato e gli alleati dall’altro. In quel Risorgimento c’è buona parte di quella Prima Repubblica che i sostenitori del governo presieduto da Conte considera un’isola di appestati: c’è Nenni e c’è Togliatti, c’è Buozzi (che morì solo pochi giorni prima della liberazione di Roma), c’è Di Vittorio e c’è Grandi, c’è Lombardi e c’è Ugo La Malfa, c’è Pietro Calamandrei che da appassionato di diritto Conte dovrebbe amare e c’è Bruno Trentin giovanissimo (diciassette anni) comandante di una “banda” di “Giustizia e libertà”.

Questa è una storia che dobbiamo coltivare (e sinceramente dubitiamo che possa farlo un governo in cui domina la figura di Matteo Salvini così lontano dai principi costituzionali) ma di cui nessuno può impossessarsi per fini personali e di bottega politica. Tutto ciò non è permesso nemmeno a Conte perché in quel bagaglio di ideali tutti, anche coloro non condividono assolutamente nulla di questo governo, devono poter trovare motivi di ispirazione e fiducia per rendere più civile il Paese. E di civiltà, tolleranza e spirito di comprensione in questo momento abbiamo veramente tanto bisogno.

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