– di GIULIA CLARIZIA-
Non è molto che il nostro paese è uscito dal Medioevo. Sono passati solo 37 anni da quando è stato abolito l’istituto del matrimonio riparatore, prima previsto dal codice penale all’articolo 544.
Fino al 5 settembre del 1981, se una donna sposava colui che l’aveva violata, per quest’ultimo il reato di stupro si sarebbe estinto.
Ragionando con la mentalità di oggi può sembrare un’assurdità. Chi mai accetterebbe di sposare il proprio carnefice? Eppure, nella bigotta e retrograda Italia di qualche decennio fa, non accettare il matrimonio riparatore era considerato un disonore. Nessuno avrebbe mai sposato una svergognata ormai privata della sua virtù. La famiglia sarebbe caduta nel più profondo disonore. E allora non c’era altra scelta: il matrimonio. Un bel “sì” all’altare e l’onta (quella della donna che si era fatta violentare, ovviamente. Un “se l’è cercata” ante litteram) veniva lavata via. E vissero per sempre felici e imprigionati nella “famiglia tradizionale”.
Ed era a tal punto assurdo che una donna rifiutasse questa costrizione, che la prima che lo ha fatto è passata alla storia. Si chiamava Franca Viola. Era una giovane siciliana, e all’epoca dei fatti, nel 1966, aveva 17 anni. Grazie al rifiuto di Franca, violentata da un giovane con cui aveva rotto il fidanzamento dopo essere venuta a sapere che apparteneva ad una famiglia mafiosa, si avviò l’iter legislativo che portò al superamento del matrimonio riparatore (e del delitto d’onore).
Un complicato percorso verso la civiltà e il superamento della chiusura mentale rispetto al tema della sessualità. Altro che famiglia tradizionale!
Una legge non può modificare da un giorno all’altro il pensiero dei più chiusi e conservatori nuclei sociali, ma è fondamentale per garantire la libertà di scelta.
Queste ultime righe, pensate in riferimento ai fatti del 1981, possono facilmente riferirsi al giorno d’oggi, mentre siamo alle prese con il dibattito su un altro tipo di matrimonio, quello omosessuale.
Ed è di poche settimane fa la sentenza storica della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Se un cittadino o una cittadina si lega in matrimonio con una persona del suo stesso sesso, questo deve essere riconosciuto come coniuge ai fini del diritto di soggiorno in tutti gli stati membri, a prescindere dalla legislazione nazionale in merito. Se ad esempio, come nel caso che ha portato la corte a pronunciarsi in questo senso, un cittadino romeno sposa un cittadino americano, nonostante la Romania non autorizzi i matrimoni egualitari, non può non riconoscere il suddetto americano come “coniuge” e dunque negargli il diritto di soggiorno in quanto tale.
La corte di giustizia dell’UE, che è stata garante dei diritti dei suoi cittadini ancora prima che esistesse effettivamente la cittadinanza europea, si porta un passo avanti rispetto agli stati che ancora non riconoscono il matrimonio egualitario (che sono 13, di cui 7 prevedono le unioni civili). Intanto a casa nostra il Ministro per le politiche per la famiglia dice che quelle gay non esistono ed auspica a un passo indietro.
Fortunatamente, c’è chi tutela la libertà di formare la famiglia a cui ciascuno sente liberamente di voler appartenere. Ma c’è ancora molto lavoro da fare, affinché dalle unioni civili si passi al riconoscimento del matrimonio a tutti gli effetti. E non solo perché è giusto che ognuno viva il proprio focolare come vuole, ma anche perché il nucleo familiare è alla base della società. È bello pensare che dalla prigione domestica che poteva essere una famiglia nata da un matrimonio riparatore, si potrà vantare oggi la completa serenità di una libera scelta. Ne deriverebbe una società fondata sull’amore e non sulla violenza. Fisica, verbale o morale che sia.