Il decreto dignità: un’occasione perduta per un compenso minimo legale in Italia

-di MAURIZIO BALLISTRERI-

In occasione del suo insediamento alla guida del Ministero del Lavoro, Luigi Di Maio aveva ripreso una tematica, quella del salario minimo legale, che vede solo l’Italia e altri 5 paesi (Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia) dell’Unione europea sprovvisti di un istituto di garanzia contro lo sfruttamento sociale. In questo senso il cosiddetto “Decreto-dignità”, nel

campo del lavoro, ha provveduto, quasi simbolicamente, a restringere soltanto l’applicazione dei contratti a termine e della somministrazione, ma perdendo l’occasione per dare risposte al nuovo mondo del lavoro senza tutele di base.

Nel nostro Paese infatti, si deve guardare all’introduzione del salario minimo legale secondo una prospettiva più ampia, in relazione anche alla tutela di forme ibride di lavoro, con la previsione di soglie minime di intervento previdenziale e di welfare, da estendersi anche a quelle figure di lavoratori che non rientrano nella nozione di subordinazione, ma che subiscono gravi fenomeni di sfruttamento come i cosiddetti riders.

Un “compenso orario minimo” a carattere universale, nuovo sistema con cui apprestare una rete di protezione economica minimale per tutte quelle prestazioni, che ben possono risultare caratterizzate da una debolezza socio-economica sebbene non siano etero-organizzate, e che, sia perché formalmente estranee alla disciplina della subordinazione sia per l’abrogazione della disciplina del lavoro a progetto con i suoi riferimenti all’adeguatezza del corrispettivo, sono sottratte a qualunque forma di tutela. L’istituto potrebbe, così, svolgere una funzione importante per i “lavoratori vulnerabili”, comprimendo l’area dei working poors, finalisticamente orientato a promuovere un processo di inclusione sociale, con una interpretazione evolutiva e dinamica del concetto di lavoro dipendente, rivolta ad estendere, in definitiva, la regolamentazione della subordinazione a campi contigui.

Un istituto che avrebbe come antecedente storico-normativo l’“equo compenso” già previsto per alcune forme di lavoro autonomo, ribadendo l’esistenza di un “diritto alla giusta retribuzione” connesso non solo all’art. 36, comma 1, Cost., ma anche alla tutela costituzionale del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni” di cui all’art. 35, configurandosi così come diritto costituzionale della persona.

L’introduzione del compenso minimo legale, inoltre, risolverebbe la vexata-quaestio dei contratti collettivi da applicare: stabilita una soglia minima di retribuzione, anche per le nuove forme ibride di lavoro, su cui calcolare l’obbligo previdenziale, tutti i contratti collettivi di lavoro rispettosi di essa sarebbero legittimi e applicabili, garantendo i principi di libertà e di pluralismo sindacali prescritti dal comma 1 dell’art. 39 della Costituzione.

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