-di FRANCO CAVALLARI-
Il reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del M5S inserito nel “contratto” tra il M5S e la Lega è entrato nel programma del nuovo Governo come uno dei punti basilari, anche se con termini di realizzazione abbastanza diversi rispetto al progetto originario. In effetti, alcuni aspetti sociali, quelli concernenti direttamente la lotta alla povertà, si sono persi, divenendo preminente nel “contratto di Governo” la fisionomia di uno strumento di assistenza transitorio al reddito dei disoccupati.
Dal punto di vista temporale si registra anche un’altra novità: il provvedimento potrà entrare in vigore tra qualche tempo, un paio d’anni e forse più, in attesa della radicale riorganizzazione nel funzionamento dei Centri per la formazione e per l’impiego. In sostanza, date le difficoltà che la realizzazione di questo strumento comporta, un rinvio alle “calende greche”. Probabilmente saranno approvati nel tempo piccoli spezzoni irrilevanti del progetto originario; probabilmente si metterà mano ad una riorganizzazione dei Centri per l’impiego, ma per il resto si farà affidamento sulla speranza che gli elettori, presi da altri problemi, dimentichino le promesse, come dimenticarono nello scorso ventennio la riforma delle due aliquote IRPEF (23 e 33%), annunciata da Berlusconi nel 2001.
Se prendiamo in esame la struttura del provvedimento quale quella contenuta nel Disegno di Legge depositato in Parlamento nella scorsa Legislatura (780 euro ad integrazione del reddito per i 10 milioni di poveri relativi recensiti dall’ISTAT, con uno stanziamento annuale di 15 miliardi, più 2 Mld “una tantum” per l’ammodernamento dei Centri per l’impiego), emerge chiaramente la sua inagibilità finanziaria: con i 15 Mld previsti, la media della disponibilità di risorse stanziate per ogni assistito, ammonta a 1500 euro l’anno, vale a dire 125 euro al mese, che renderebbero lo strumento del tutto incongruo rispetto ai fini.
Una recente analisi presentata il 3 giugno scorso al Festival dell’economia di Trento dal Dott. Fernando De Nicola della Direzione Studi dell’INPS, pur avendo supposto ipotesi molto strette nel calcolo dei redditi in capo ai soggetti interessati, quantifica in 33 Mld il costo del provvedimento. Altri osservatori considerano, empiricamente, che per avere un’incidenza significativa sulla povertà relativa, l’istituto in questione dovrebbe poter disporre di una dotazione finanziaria intorno ai 45 Mld, in modo da poter contare su una media per assistito di almeno 375 euro al mese.
Oltre all’inagibilità finanziaria, altri aspetti del progetto presentano rilevanti criticità, come ad es. la riorganizzazione dei Centri per l’impiego che richiederà diversi anni ed il cui costo, previsto in 2 Mld, non può essere considerato “una tantum” in quanto bisognerà assumere, addestrare e remunerare adeguatamente ogni anno molte migliaia di funzionari, formatori e controllori (diciamo 40.000- La Germania ne ha 110.000).
Sul piano delle modalità di attuazione, appare evidente l’irrealizzabilità dell’offerta dei tre posti di lavoro per ogni disoccupato, un’idea di Casaleggio padre presa di sana pianta dal sostegno al reddito dei disoccupati previsto nell’Unione Sovietica e in alcuni Stati satelliti dell’Europa dell’est. Parliamo di regimi assolutisti in cui lo Stato aveva il monopolio della creazione di posti di lavoro (caratterizzati da scarsissima o inesistente produttività); così, la mano pubblica aveva la possibilità di fare le tre offerte di lavoro, fornendo a tutti un salario (di fame), in cambio di un impiego della manodopera in massima parte inutile e, molto spesso, parassitario.
Attualmente, in alcuni Paesi, come ad es. l’Olanda, sono vigenti forme di assistenza al reddito per i lavoratori temporaneamente disoccupati, ma si tratta di indennità di disoccupazione di breve durata, operanti in contesti economici dinamici che creano in continuazione nuovi posti di lavoro remunerativi.
In un contesto economico come il nostro, afflitto da un tasso di disoccupazione elevatissimo, specie nel Mezzogiorno, c’è da chiedersi dove i Centri per l’impiego potrebbero trovarebbero i milioni di posti di lavoro remunerativi (ossia aventi produttività allineata al mercato) da offrire ai 3,4 milioni di disoccupati facenti parte dei 10 milioni di poveri a cui si intende dare assistenza?
A parte le considerazioni precedenti, anche dal punto di vista etico i riferimenti valoriali del Reddito di cittadinanza risultano abbastanza deboli dal punto di vista occupazionale. Malgrado la trasformazione da strumento di sostegno permanente alla povertà a strumento di temporanea assistenza alla disoccupazione, restano non poche anomalie, come ad es l’elevatezza della soglia di integrazione al reddito (780 euro mensili), spesso superiore al salario dei lavoratori precari, saltuari o “part time”. Questa circostanza, coniugata con l’irrealizzabilità dell’offerta dei tre lavori remunerativi, trasformerebbe ben presto questo strumento in istituto di tipo prettamente assistenziale, concretizzando una consistente spinta all’inattività e al lavoro in nero.
Ma quel che più conta, esso rischia di togliere ai lavoratori non solo la dignità del reddito guadagnato, sottraendoli all’umiliazione dell’assistenza pubblica, ma anche e soprattutto la consapevolezza di partecipare attivamente allo sviluppo del contesto in cui vivranno i loro figli. Ne conseguirebbe una società non più fondata sul lavoro come strumento di presenza sociale attiva e di promozione della propria posizione sociale, secondo le indicazioni della nostra Costituzione, ma una Comunità nazionale allentata, nel cui tessuto sociale si infiltrerebbe inesorabilmente, insieme ad una forma di sconsolante pauperismo, anche il virus micidiale del parassitismo, incentivando peraltro forme inaccettabili di “lavoro nero assistito”.
Val la pena di sottolineare che le ingenti risorse previste per il Reddito di cittadinanza, potrebbero essere destinate ad affrontare in radice l’annoso problema della carenza di occupazione che affligge il nostro mercato del lavoro. In effetti, la gran parte dello stanziamento in parola potrebbe essere impiegata in un piano pluriennale orientato al rilancio degli investimenti pubblici e privati. Questa azione, coadiuvata dall’investimento delle restanti risorse nella progressiva riduzione dell’orario di lavoro, (secondo il vecchio slogan sindacale “lavorare meno, lavorare tutti” che dovrà essere recuperato nei prossimi decenni), potrebbe creare i presupposti per avvicinare il nostro Paese alla piena occupazione, fronteggiando efficacemente la tendenza secolare alla diminuzione dell’occupazione derivante dal turbolento sviluppo della tecnologia e della robotica
La piena occupazione non è un obiettivo irrealizzabile e potrebbe essere conseguita con successo nel medio periodo attraverso uno sforzo costante in questa direzione, simile al New Deal rooseveltiano del secolo scorso, che ha assicurato all’economia degli USA un periodo di grande prosperità per più di un trentennio. Un piano di rilancio dello sviluppo, dopo una lunga crisi, adeguatamente finanziato e corredato di appropriate politiche di accompagnamento, sarebbe in grado di dare ampio respiro alla crescita della nostra economia, senza compromettere i delicati equilibri di Finanza pubblica; crescita per mezzo della quale potranno essere generate anche le risorse necessarie per affrontare una più efficace lotta alla povertà e un graduale riassorbimento di gran parte del gravame costituito dal nostro esorbitante debito pubblico.