Sul declino dell’intellettuale e dello spirito critico

-di MAURIZIO FANTONI MINNELLA-

Se qualche tempo fa è accaduto (purtroppo) che uno sparuto manipolo di “untorelli” fascisti post-moderni segnasse alcune abitazioni con la scritta “Qui vive un antifascista” come fosse un marchio d’infamia, non sarebbe impossibile, per paradosso, che un giorno neanche troppo lontano, venissero, con altrettanto livore, segnate altre abitazioni (poche) con la scritta. “qui vive un critico, qui risiede un intellettuale”!. Ma in questo caso, chi si assumerebbe l’increscioso incarico di spargere il nuovo verbo? Magari non più i soliti neofascisti finalmente legittimati da un sempre più fragile democrazia, ma…Chissà se invece non siano davvero in molti i pretendenti!…Dopo tale premessa che rivela quanta drammaticità possacelarsi dietro uno scenario da commedia, solo apparentemente goliardica, verrebbe perfino da chiedersi di quanta efficacia profetica fosse foriera la sequenza fantozziana ormai leggendaria (e ampiamente abusata) della “Corazzata Kotiomkin, con quella consumata abilità e arguzia nel ritrarre la figura dell’intellettuale cinephile della Grande Fabbrica come un despota ottuso e finanche grottesco, caricatura ideale dei suoi stessi padroni, tale da giustificare l’imprevedibile reazione di un servo per eccellenza quale è, il ragionier Fantozzi. Ed è appunto grazie ad un gesto liberatorio che il piccolo uomo comune si sbarazza finalmente dalla tirannide della cultura: nella fantasia dello schermo o nella realtà che viviamo ogni giorno? Semplificando, ciò che era apparsa poco più di una barzelletta, oggi, grazie anche alle dinamiche solo apparentemente democratiche dell’universo digitale e al ritrovato primato globale dei principi dell’economia su quelli della cultura, potrebbe in un tempo non troppo lontano, diventare una realtà basata sul duplice principio dell’intersoggettività e dell’individualismo di massa (un indigeribile ossimoro sempre più diffuso nel dibattito culturale contemporaneo).Infatti, va sempre più affermandosi in Italia e in Europa un modello di società ferocemente competitiva dove alle vecchie classi sociali si sostituiscono singoli individui, a cui il mercato si riferisce come potenziali compratori. Dove lo sport sembra essere la sola possibile metafora di una competizione infinita da cui emerge con sempre più prepotenza il principio delle cosiddette “eccellenze” (sempre più spesso il nome di un autore è preceduto dal nome dell’importante premio attribuitogli), in una prospettiva sociale che, impoverendo e ridimensionando il ruolo della classe media, finisce per compromettere quella forza cuscinetto chestoricamente garantiva maggior equilibrio politico e diffusione di un pensiero critico oggi sostituibile con l’ideologia del mercato assoluto. 

Parafrasando Pier Paolo Pasolini che nella sua opera testamento faceva dire un personaggio che la sola anarchia è quella del potere, si potrebbe dire quindi, che la sola ideologia possibile è quella del mercato. Si parli anche di dimensione urbana (ad esempio, del ruolo assunto da Milano come città smartsempre più cannibalizzante”) e artistica (letteratura, musica, etc.), laddove verrebbe riproposta la medesima bipolarizzazioneche nel programma di giustapposizione tra masse e produzione, andrebbe irrimediabilmente a compromettere, se non a distruggere progressivamente quel ricco tessuto culturale intermedio che garantiva l’evoluzione del pensiero in una pluralità dialettica e articolata. E nell’ultima fase storica(che apre il nuovo millennio), sembra proprio che le due dimensioni si confondano un poco. Esistono da almeno mezzo secolo due culture, una alta o accademica e una popolare di massa (per i marxisti si trattava, invece, di un aut-aut tra rivoluzione proletaria e cultura borgheseAnatolij Lunacarskij, 1875-1933): una pressochè inattaccabile, arroccata nei territori protetti dell’accademia e benedetta dai poteri forti, l’altra, invece, formatasi nel mare magnum della cosiddetta industria culturale. Nelle storiche figure sociali del critico e dell’intellettuale (che non sono come molti credono, il medesimo soggetto e sulle cui differenze andrebbe dedicato ben altro spazio), si materializzava una insostituibile dialettica di intermediazione tra la dimensione culturale e il pubblico. Non si dimentichi, tuttavia, che lo studente universitario era come è adesso, nel contempo fruitore di cultura accademica e di cultura di massa. Nel corso di almeno due decenni (1960-1970) quest’ultima, sorretta dalla complessaelaborazione di un pensiero critico, andava incorporando al suo interno una creatività di contenuti e forme originali, talora sperimentali e d’avanguardia, estese a tutte le discipline artistiche. Una palingenesiartistico-culturale paragonabile soltanto a quella avvenuta nel periodo compreso tra gli anni venti e trenta del medesimo secolo, l’età delle cosiddette avanguardie storiche. Ed è proprio in quel particolare segmento storico che andò affermandosi un’arte che fosse tutt’uno con la coscienza critica del mondo. E se il possederne una non rientra propriamentenell’ambito del pensiero comune, ciò non significa che si debba demonizzare come inutile o elitaria una figura professionale specifica come quella, appunto, del critico, ancora capace, se davvero in grado di sottrarsi al demone maligno dell’autoreferenzialità e dalle lusinghe del potere di riferimento, di orientare culturalmente le scelte del pubblico, aiutandolo a distinguere (e oggi ce n’è sempre più bisogno), tra buona e cattiva letteratura, tra buona e cattiva musica etc, perché, insomma, la questione della contaminazione tra alto e basso, oggi così di moda, più che nel processo di fruizione di un opera, funziona semmai in quello dellacreazione, come ci ha insegnato lo splendido binomio Weill-Brecht della Dreigroschenoper (Opera da tre soldi).

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