Omaggio a Matteotti a 94 anni dalla morte

– di FEDERICO MARCANGELI –

Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai“. Questa la frase più celebre di uno dei più grandi antifascisti italiani: Giacomo Matteotti. Oggi ricorrono i 94 anni dal suo omicidio e tante personalità hanno deciso di ricordarlo in questa mattinata di Giugno. La Fondazione Nenni non poteva mancare all’incontro, con la presenza di Carlo Fiordaliso, affiancata da tanti altri esponenti della cultura e della politica romana: la Fondazione Giacomo Matteotti, la Fondazione Filippo Turati, il Circolo Culturale Saragat-Matteotti, nonché esponenti del Partito Democratico Romano e delle istituzioni Municipali. In questo quadro di grande partecipazione collettiva interverranno anche studenti e rappresentanti del mondo del lavoro, a rappresentare la grande trasversalità della manifestazione presso il Lungotevere Arnaldo da Brescia (sede del monumento commemorativo).
Infatti Matteotti è stato sì un socialista, ma prima di tutto un antifascista. Ha combattuto fino all’ultimo per denunciare e difendere le istituzioni dall’assalto squadrista, pagando con la sua stessa vita. Il 30 Maggio 1924, subito dopo le elezioni bulgare dello stesso anno, denunciò i brogli ed i soprusi perorati dai fascisti: “la lista di maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti (…) cotesta lista non li ha ottenuti, di fatto e liberamente, ed è dubitabile quindi se essa abbia ottenuto quel tanto di percentuale che è necessario per conquistare, anche secondo la vostra legge, i due terzi dei posti che le sono stati attribuiti! (…) quindi contestiamo in questo luogo e in tronco la validità della elezione della maggioranza. (…) L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. In primo luogo abbiamo la dichiarazione fatta esplicitamente dal governo (…) che le elezioni non avevano che un valore assai relativo, in quanto che il Governo non si sentiva soggetto al responso elettorale, ma che in ogni caso – come ha dichiarato replicatamente – avrebbe mantenuto il potere con la forza (…)  A parte questo argomento del proposito del Governo di reggersi anche con la forza contro il consenso e del fatto di una milizia a disposizione di un partito che impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale e che invalida in blocco l’ultima elezione in Italia, c’è poi una serie di fatti che successivamente ha viziate e annullate tutte le singole manifestazioni elettorali”. Delle parole forti che dipingono un quadro chiarissimo della situazione dell’epoca e, proprio per questo, interrotte più volte dai parlamentari del Partito Nazionale Fascista. Ma gli esempi concreti che Matteotti portò in questa sua arringa sono ancora più sconcertanti: “ad Iglesias il collega Corsi stava raccogliendo le trecento firme e la sua casa è stata circondata (…) a Melfi è stata impedita la raccolta delle firme con la violenza. In Puglia fu bastonato perfino un notaio (responsabile della verifica delle liste elettorali, ndr). A Genova i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati. (…) Presupposto essenziale di ogni elezione è che i candidati, cioè coloro che domandano al suffragio elettorale il voto, possano esporre, in contraddittorio con il programma del Governo, in pubblici comizi o anche in privati locali, le loro opinioni. In Italia, nella massima parte dei luoghi, anzi quasi da per tutto, questo non fu possibile.”

Il confronto alla Camera fu durissimo, con minacce più o meno velate da parte degli esponenti del Partito Fascista, come quella dello squadrista Farinacci  che disse“Va a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto!”, nel tentativo di zittire l’opposizione. Quel che stupisce di Matteotti è la lucidità ed il coraggio con cui ha portato avanti la sua denuncia, conscio delle sicure conseguenze del suo gesto. Non a caso disse ai suoi colleghi: “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me“. Il 10 Giugno alle 16.15 queste parole profetiche si realizzarono. Uscito di casa per andare a Montecitorio, fu intercettato da 5 squadristi della polizia politica che, dopo una colluttazione, lo caricarono su una Lancia Lambda nera. Non riuscendo a bloccarlo con la forza, Giuseppe Viola (uno degli squadristi) accoltellò più volte il deputato, facendolo morire dissanguato nel giro di qualche ora. Il corpo fu seppellito fuori dalla città di Roma (a Riano) e ritrovato per caso il 26 Giugno. Nel frattempo la situazione politica si stava avviando verso una degenerazione sempre peggiore ed il 25 Gennaio 1925 Mussolini, in un delirio di onnipotenza, si assunse la responsabilità di quel gesto: “Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi”. Ufficialmente nessun tribunale dimostrò mai la responsabilità concreta del dittatore, ma tutti i condannati furono esponenti del partito da lui guidato, mossi da quel vento squadrista che fiaccò le istituzioni italiane nel ventennio più buio della loro storia.

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