Nell’ottobre del 1946, quattro mesi dopo il referendum che aveva trasformato l’Italia in una Repubblica e portato i cittadini alle urne per eleggere l’Assemblea Costituente, Giuseppe Di Vittorio, costituente comunista (alle spalle un passato di sindacalista rivoluzionario e l’esperienza di parlamentare eletto nelle liste socialiste prima dell’avvento del fascismo) e uno dei leader della Cgil temporaneamente unita, presentava alla terza sottocommissione, quella che si occupava dei rapporti economici e sociali, una relazione dal titolo: “Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale”. Questo documento rappresenta, in qualche misura, la conclusione di un percorso cominciato con l’opposizione al fascismo, proseguito con la guerra di liberazione e culminato con la scelta di dare nuove basi istituzionali, democratiche e condivise, al Paese. Non a caso nella relazione presentata ai colleghi Costituenti, Di Vittorio sottolineava di non aver espresso “opinioni strettamente personali, sui vari aspetti del tema stesso bensì – per quanto è possibile – delle posizioni mediane, sulle cui basi possono eventualmente convergere le opposte posizioni di principio”. La Costituzione non doveva nascere nel segno del prevalere di una parte sull’altra ma doveva amalgamare le diverse scuole ideologiche e ideali in una costruzione che fosse garanzia per tutti e non strumento di punizione per alcuni. Di Vittorio davanti ai colleghi rivendicava il ruolo avuto nella lotta al fascismo e al nazismo dai lavoratori e dai sindacalisti: gli operai spediti nei campi di lavoro all’estero e quelli uccisi sotto i colpi della feroce repressione delle Ss coadiuvate dalle attività di rastrellamento dei manipoli della Guardia Nazionale Repubblicana al formale servizio di Mussolini; i sindacalisti partiti per l’esilio come Bruno Buozzi o che avevano lottato nella clandestinità come Roveda e lo stesso Di Vittorio, finiti nelle prigioni naziste come Pastore nella fase più acuta della repressione nel marzo-aprile del 1944, trucidati come Buozzi dai tedeschi in fuga da Roma proprio nel giorno in cui la Capitale veniva liberata dagli americani (il 4 giugno 1944). Di Vittorio parlava a nome di un nuovo protagonista (i lavoratori, gli operai, i braccianti) che nella guerra di liberazione aveva acquisito meriti e ora, dopo anni di emarginazione e vessazioni, pretendeva un ruolo pubblico sul palcoscenico della nascente Repubblica.
-di GIUSEPPE DI VITTORIO*-
Il diritto di associazione è anzi il presidio più sicuro della libertà della persona umana la quale tende in misura crescente a ricercare la via del proprio sviluppo, della propria difesa, e d’un maggiore benessere economico e spirituale, specialmente nella libertà di coalizzarsi con altre persone, in aggruppamenti sociali, professionali, cooperativi, politici, religiosi, sportivi e d’ogni altro genere, aventi interessi od ideali comuni od affini.
Perché la Costituzione della Repubblica italiana sia adeguata alle nuove esigenze poste dallo stato attuale dell’evoluzione storica del nostro Paese, nel quadro di quella europea e mondiale, occorre che la Costituzione italiana sancisca nel modo più chiaro il diritto pieno di associazione, che si compendia nella libertà delle varie organizzazioni di sviluppare liberamente la propria attività e per la realizzazione dei propri scopi rispettivi, nei limiti fissati dalle leggi.
Tale diritto dev’essere riconosciuto a tutti i cittadini d’ambo i sessi e d’ogni ceto sociale, senza nessuna esclusione. Tuttavia la Costituzione non può ignorare che se il diritto di associazione dev’essere garantito ad ogni cittadini, esso ha però un valore diverso per i differenti strati sociali.
Nell’attuale sistema sociale, infatti, la ricchezza nazionale è troppo mal ripartita, in quanto si hanno accumulazioni d’immensi capitali nelle mani di pochi cittadini, mentre l’enorme maggioranza di essi ne è completamente sprovvista. In tali condizioni, è chiaro che nei naturali ed inevitabili contrasti di interessi economici e sociali sorgenti fra i vari strati della società nazionale, il cittadino lavoratore ed il cittadino capitalista non si trovano affatto in condizione di uguaglianza. Il cittadino capitalista, basandosi sulla propria potenza economica, può lottare e prevalere anche da solo, in determinate condizioni di carattere economico. Il cittadino lavoratore, invece, da solo, non può ragionevolmente nemmeno pensare di partecipare a tali competizioni. Ne consegue che per il cittadino lavoratore, la sola possibilità che esista – perché possa partecipare a date competizioni economiche, senza esserne schiacciato in partenza – è quella di associarsi con altri lavoratori, aventi interessi e scopi comuni, per controbilanciare col numero, con l’associazione, e con l’unità di intenti e d’azione degli associati, la potenza economica del singolo capitalista, o d’una associazione di capitalisti. Il sindacato, perciò, è lo strumento più valido, per i lavoratori, per l’affermazione del diritto alla vita e del diritto al lavoro, che dovranno essere sanciti dalla nostra Costituzione.
IL POSTO PREMINENETE CHE SPETTA AI SINDACATI DEI LAVORATORI NELLO STATO DEMOCRATICO
Dalle osservazioni che precedono scaturiscono alcune deduzioni che lo Stato democratico non può ignorare, senza venir meno alla sua funzione di supremo armonizzatore degli interessi legittimi dei singoli cittadini e dei differenti strati sociali in cui essi sono raggruppati, con quelli generali della collettività nazionale. La più importante deduzione che a nostro avviso, se ne deve trarre, è quella del riconoscimento di una preminenza obiettiva degli interessi rappresentati dai Sindacati dei lavoratori, rispetto agli interessi pur legittimi rappresentati dalle associazioni sindacali dei grandi datori di lavoro.
La giustificazione di questa preminenza e del suo riconoscimento esplicito da parte dello Stato democratico, è data ancora dalle considerazioni che seguono:
- Gli interessi che rappresentano e difendono i sindacati dei lavoratori, sono interessi di carattere collettivo e non particolaristico od egoistico; interessi che in linea di massima coincidono con quelli generali della Nazione…
- I sindacati del lavoratori rappresentano la forza produttrice fondamentale della società e la stragrande maggioranza della popolazione economicamente attiva nei vari rami dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, del credito della scuola, dei pubblici servizi, ecc. Tutta la società moderna pone il lavoro come fondamento del proprio sviluppo… Se la funzione sociale del lavoro, e quindi delle organizzazioni sindacali che lo rappresentano, sono considerate sempre di maggiore preminenza in tutti i paesi economicamente più sviluppati, ciò è tanto più giusto e necessario in Italia, dove il capitale più grande e più prezioso di cui dispone la Nazione è rappresentato appunto dalla sua immensa forza lavoro; ossia, del gran numero di lavoratori che conta il nostro Paese, nonché dalle loro spiccate e riconosciute capacità tecniche e professionali che – attraverso il lavoro dei nostri emigranti – si sono affermate in quasi tutti i paesi del mondo.
- I lavoratori, per la loro condizione sociale, sono i maggiori interessati al consolidamento ed allo sviluppo ordinato della libertà e delle istituzioni democratiche, come lo comprova il fatto ch’essi hanno costituito il nerbo decisivo delle forze nazionali che hanno abbattuto il fascismo ed hanno portato un contributo efficiente alla liberazione della Patria dall’invasore tedesco…
- I sindacati dei lavoratori, quali organismi unitari di milioni di cittadini in tutte le provincie d’Italia e tutori dei loro interessi collettivi e solidali, costituiscono obiettivamente il tessuto connettivo più solido della Nazione e della sua stessa unità.
- Gli interessi economici rappresentati rispettivamente dai sindacati dei lavoratori e da quelli dei datori di lavoro, sono entrambi legittimi, ma la loro portata non è eguale, nel complesso della vita nazionale, anche a causa del numero incomparabilmente maggiore di cittadini rappresentati dai primi, rispetto ai secondi. Per di più i sindacati dei lavoratori rappresentano interessi vasti e vitali della grande massa dei cittadini non abbienti, che lo Stato democratico ha il dovere di difendere e tutelare. Ne consegue che il concetto di pariteticità fra gli interessi rappresentati dai sindacati dei lavoratori e quelli rappresentati dai sindacati padronali, non corrisponde alla realtà ed è perciò da considerarsi infondato e ingiusto… Teoricamente, si può benissimo sostenere – dal punto di vista democratico – che in seno allo Stato ed a tutte le istituzioni statali, la rappresentanza degli interessi rispettivi dei datori di lavoro e dei lavoratori venga basata sul principio della proporzione numerica delle persone interessate in ciascuna delle due parti. Ma si riconosce che una applicazione automatica di tale principio lo renderebbe assurdo, come può avvenire di ogni sano principio che si voglia spingere sino alle sue ultime conseguenze teoriche… Tuttavia, da un tale eccesso, a quello della pariteticità, vi è una via mediana, che è quella che noi proponiamo: il riconoscimento d’una preminenza, per i sindacati dei lavoratori, che nella determinazione delle rappresentanze nei vari organismi statali, parastatali, previdenziali, ecc. può essere fissata in un rapporto convenzionale. I sindacati dei lavoratori, dunque, e per il loro numero, e per la funzione sociale d’interesse generale che esercitano nella vita della Nazione, debbono avere un posto a parte nello Stato democratico. Pensiamo particolarmente alla costituzione d’un Consiglio Nazionale del Lavoro che abbia la facoltà di promuovere una legislazione sociale adeguata ai nostri tempi ed alle nostre possibilità e il diritto di esame di tutti i progetti di legge di carattere sociale da proporre alla Camera legislativa. Lo stesso Consiglio Nazionale, inoltre, dovrebbe essere dotato di poteri e di mezzi sufficienti per controllare efficacemente, anche a mezzo di suoi organi periferici, l’effettiva applicazione delle leggi sociali e protettive dei lavoratori
DEL DIRITTO DI SCIOPERO
Il diritto di associazione comporta la libertà d’azione delle singole associazioni, per l’adempimento dei loro compiti e per la realizzazione degli scopi per i quali sono state costituite. Le libertà sindacali, che si riassumono nella piena libertà di riunione, di discussione, di manifestazione, di astensione dal lavoro, ecc., comportano il diritto di sciopero. Questo diritto non è più contestato da nessuno, ad eccezione dello sciopero relativo ai servizi pubblici.
Da parte di coloro che sostengono doversi vietare per legge lo sciopero dei servizi pubblici, si osserva che tali scioperi non sono leciti in quanto hanno la conseguenza di danneggiare la massa dei cittadini estranei alla contesa. Un’altra osservazione degna di rilievo è che gli impiegati pubblici, avendo uno statuto giuridico particolare che li lega allo Stato o ad altri enti pubblici, non dovrebbero in alcun caso scioperare.
L’una e l’altra osservazione sono di peso e vanno tenute nel debito conto. Ma esse non sono tali da giustificare la negazione del diritto di sciopero ai lavoratori dei servizi pubblici…
Se si toglie a questi lavoratori il diritto di sciopero, quale altro mezzo veramente efficace rimane loro per far valere i propri diritti?…
Il divieto di sciopero, per qualsiasi categoria di lavoratori, è una mutilazione della personalità; è incompatibile col principio della libertà del cittadino, e si riallaccia piuttosto a quello del lavoro forzato, che presuppone una condanna.
Il divieto di sciopero in qualsiasi servizio infine, formerebbe categorie di cittadini minorati, privati di determinati diritti, che sono riconosciuti ad altri cittadini…
L’affermazione di questo principio, non può significare, per altro, che non si debba tener conto delle obiezioni cui abbiamo accennato…
Ma questa remora non può consistere nel diniego d’un diritto incontestabile, ma bensì nella coscienza civica degli stessi lavoratori dei servizi pubblici i quali sono consapevoli delle conseguenze particolarmente gravi del loro sciopero.
DELLA FACOLTÀ DI “SERRATA”
Al diritto di sciopero si suol legare strettamente quello quanto mai contestabile della “serrata” da parte dei datori di lavoro; cioè, della facoltà per questi ultimi di chiudere aziende e di sospendere il lavoro per un tempo indeterminato, per rappresaglia contro l’arma dello sciopero usata dai lavoratori.
Non crediamo che sia giusto porre sullo stesso piano il diritto di sciopero e quello di serrata. Gli argomenti che abbiamo svolto innanzi, per dimostrare la preminenza dei sindacati dei lavoratori, valgono anche per porre su d’un piano profondamente diverso lo sciopero e la serrata. Ci basti aggiungere brevi considerazioni, più strettamente attinenti alla questione.
Lo sciopero può danneggiare una sola persona – il padrone dell’azienda – e di riflesso l’economia nazionale. La serrata, invece, pur producendo lo stesso riflesso all’economia nazionale, può danneggiare migliaia di lavoratori.
D’altra parte lo sciopero ha un limite automatico ed imperioso nel bisogno che hanno i lavoratori di riscuotere il salario, unica loro fonte di sussistenza. Per il padrone, invece, tanto lo sciopero quanto la serrata si risolvono nella rinuncia al profitto del periodo della loro durata. Si tratta in ogni caso, di un danno economico, che non può mai giungere al limite del bisogno di vivere, da cui sono assillati i lavoratori scioperanti. Ne consegue che il padrone, volendolo, potrebbe far durare la serrata per un tempo praticamente illimitato…
SINDACATO DI STATO, O SINDACATO LIBERO?
… Su questo problema si sono manifestate nel Paese e nella stampa, due tendenze estreme. L’una propone il sindacato quale ente di diritto pubblico, giuridicamente riconosciuto dallo Stato e sottoposto al controllo della autorità tutoria. L’altra propone il sindacato libero, non avente alcun rapporto giuridico con lo Stato, rimanendo presso a poco nella stessa condizione che avevano i sindacati italiani nel periodo prefascista.
Fra queste due tendenze, crediamo sia possibile una posizione mediana, che soddisfi le esigenze obiettive poste dall’una e dall’altra posizione ed elimini la maggior parte dei gravi inconvenienti che presentano entrambe…
Noi crediamo che dopo tanti anni di obbligatorietà d’ogni genere, i lavoratori italiani sentano un grande e salutare bisogno di libertà, anche e soprattutto sul terreno sindacale…
Noi crediamo che il sindacato, per adempiere effettivamente ai suoi compiti, per essere in grado di difendere con efficacia gli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori, è indispensabile che sia libero, volontario, autonomo, indipendente. In regime di democrazia, i lavoratori debbono essere assolutamente liberi di aderire o meno ad una qualsiasi organizzazione, e di pagarne o meno i relativi contributi.
DEL RICONOSCIMENTO GIURIDICO DEL SINDACATO – LIBERTA’ E FUNZIONI PUBBLICHE DEL SINDACATO
… Può un organismo non avente una veste giuridica, assolvere funzioni di carattere pubblico? È precisamente nella risposta che si dà a questa questione che bisogna ricercare il punto di conciliazione tra la libertà ed il riconoscimento giuridico del sindacato.
Noi crediamo che sia perfettamente possibile dare una personalità giuridica al sindacato, senza vulnerarne l’autonomia e l’indipendenza. Indubbiamente, lo Stato ha il dovere di esigere alcune garanzie, nell’interesse della collettività nazionale, da un organismo al quale si conferiscono determinate funzioni pubbliche. Nel nostro caso crediamo che le sole garanzie legittime che lo Stato possa chiedere ed ottenere dal sindacato riconosciuto, siano essenzialmente di due ordini: la registrazione legale in apposito registro tenuto dal Consiglio Nazionale del Lavoro e dai suoi organi periferici, col relativo deposito dello statuto sociale e la denuncia del numero dei propri iscritti; l’accertamento, da parte dello stesso Consiglio nazionale del Lavoro e dei suoi organi periferici, dell’efficienza numerica dei sindacati registrati e riconosciuti. Altra garanzia legittima che lo stato deve esigere dal sindacato riconosciuto è la condizione che il suo statuto sociale sancisca chiaramente un ordinamento interno democratico dell’organizzazione, con l’elezione mediante voto segreto e diretto di tutti i dirigenti e con l’obbligo di sottoporre all’approvazione dell’assemblea dei soci dei suoi bilanci preventivi e consuntivi.
LIBERTÀ E PLURALITÀ SINDACALE
Una volta escluso il sindacato unico obbligatorio, sorge un’altra questione: possono costituirsi più sindacati, antagonisti e concorrenti, per la stessa categoria? Noi rispondiamo per l’affermativa. Il concetto di libertà sindacale non può essere disgiunto dalla libertà facoltà di aderire o meno al sindacato costituito, o di rendersi iniziatore della costituzione di un altro sindacato.
L’osservazione che l’ammettere la pluralità dei sindacati sia contrario al principio dell’unità sindacale e possa comprometterla non appare fondata. Unità e “unicità” sindacale sono due concetti profondamente diversi ed in certo senso opposti. L’ “unità”, l’unità obbligata non unifica assolutamente nulla.
A QUALI SINDACATI DEBBONO AFFIDARSI LE FUNZIONI DI CARATTERE PUBBLICO?
Il diritto di stipulare il contratto collettivo dev’essere riconosciuto a quello dei sindacati che conti nel proprio seno la maggioranza assoluta dei lavoratori che ne sono interessati. In mancanza d’un sindacato che abbia tale requisito, lo stesso diritto va riconosciuto al sindacato che abbia il maggior numero di iscritti fra gli appartenenti alla categoria interessata.
Ma perché lo stesso sindacato maggioritario non abbia una posizione di monopolio, e quelli minoritari eventuali non ne siano completamente esclusi, si può stabilire il principio che alle trattative per la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro abbiano diritto di partecipare anche dei rappresentanti dei sindacati minoritari, in proporzione al numero dei rispettivi aderenti.
DELLE ORGANIZZAZIONI AZIENDALI – COMMISSIONI INTERNE E CONSIGLI DI GESTIONE
In Italia esistono due tipi di organismi aziendali, con funzioni distinte e ben definite: l’uno, già antico ed esteso a tutte le aziende, le Commissioni Interne; l’altro di creazione più recente, ed in atto in gran parte delle grandi aziende industriali, è il Consiglio di gestione.
Delle commissioni interne sono ben note le funzioni. Esse sono, in certo senso, il prolungamento del sindacato nell’azienda, con la particolarità importante ch’esse vengono elette da tutto il personale che ne dipende: operai, tecnici, impiegati, ecc., indipendentemente dalla loro appartenenza o meno al sindacato.
All’interno delle aziende, le commissioni interne vegliano per garantire il normale andamento del lavoro, l’osservanza dei contratti collettivi e delle norme d’igiene e di sicurezza, tutelano gli interessi collettivi ed individuali di tutti i lavoratori, risolvono d’accordo con la direzione delle aziende, le vertenze che sorgono, evitando che ciascuna di esse degeneri in un’agitazione generale del personale.
Più delicate sono le funzioni dei consigli di gestione. Composte da un numero eguale di rappresentanti delle maestranze e della direzione dell’azienda, sotto la presidenza di un tecnico designato di comune accordo, i consigli di gestione hanno il compito di far partecipare l’intero personale alla migliore gestione dell’azienda, cointeressandolo direttamente al suo sviluppo.
* Stralci dalla “relazione del deputato Di Vittorio Giuseppe”, presentata alla “Commissione per la Costituzione III Sottocommissione”. Titolo: Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale”