-di LUIGI TROIANI-
Un altro grande del cinema ha chiuso gli occhi su quel mondo che per un’intera vita ha ripreso, interpretato e donato a chi amava contenuti e forma della sua cifra artistica: a quasi 88 anni il bergamasco Ermanno Olmi è morto oggi ad Asiago, luogo d’elezione dove da decenni si era trasferito con la famiglia.
Il regista, conosciuto per splendidi lungometraggi immaginifici come “L’alberto degli zoccoli” (1978), “La leggenda del santo bevitore” (1988). “Centochiodi” (2007), è stato artista molto versato sul lato della rappresentazione del lavoro e dell’impresa, pur non avendone mai fatto una bandiera, mai passando alla cassa (e alla committenza) del consenso politico o sindacale. La sterminata produzione documentaristica ha guardato praticamente ad ogni attività dell’ingegno umano, e anche film e lungometraggi risentono di quell’ambientazione: si pensi per il lavoro contadino al citato “L’albero”, e per l’attività industriale a “Il posto” (1961).
La biografia spiega molto di quella vena creativa. Papà ferroviere e mamma operaia, Ermanno si era trovato a crescere a Treviglio, condividendo nel profondo la vita di lavoro di chi gli stava intorno, nella campagna e nella fabbrica. Gli morì il padre durante la guerra, per ragioni legate al lavoro. Olmi avrebbe scritto:
Mio padre morì quindici giorni dopo il bombardamento dell’edificio in cui lavorava. Allora non esistevano le possibilità scientifiche per verificarlo ma è probabile che la morte fu causata da un embolo dovuto al violento spostamento d’aria causato da una bomba.
In quel tempo, l’impegno politico dei lavoratori più preparati era fuori discussione e si esprimeva soprattutto nelle fila del partito socialista. Così fu per il padre del piccolo Ermanno, che presto dovette pagare dazio al regime. Il figlio avrebbe ricordato come quella militanza fosse costata al padre il posto dI ferroviere. Un ricordo indelebile, se si pensa che decenni dopo, parlando di Pietro Germi e del suo “Il ferroviere”, avrebbe scritto:
Settembre 1961, a Roma. Da Rosati a via Veneto. Germi lo trovavi sempre lì, al bancone del bar, seduto davanti a un bicchiere di vino. Non era una posa d’artista: era davvero nella sua natura starsene silenzioso a pensare sorseggiando del buon vino. Se non avessi saputo ch’era un celebre regista e anche attore avrei detto, per istintiva sensazione, che poteva essere un ferroviere. Perché mi ricordava mio padre come lo avevo in mente da bambino: anche lui ferroviere. Gente solida, buoni bevitori ma rigorosamente sobri in servizio. Quel giorno di settembre, fu proprio Germi a rivolgermi un saluto. Fino ad allora, io lo incontravo spesso lì (lo ammiravo moltissimo), ma non avevo mai osato importunarlo. Mi disse che aveva visto “Il posto”, il mio film che era stato alla mostra di Venezia e che gli era piaciuto. Io gli confidai la grande emozione (e le lacrime!) per il suo “Ferroviere”. Ma al di là della grazia sublime dell’opera ‒ di una rara potenza poetica! ‒ c’era per me una ragione particolare, che mi faceva amare in modo speciale quel suo film: riguardava la mia stessa vita e quella di mio padre che aveva attraversato le stesse vicende del suo ferroviere.
Quel padre aveva un figlio che si lasciava educare e formare, in attesa d’identificare il proprio cammino. Ermanno fu portato in fabbrica ancora adolescente. Milano operaia di quegli anni tornerà da protagonista in moltissima sua opera adulta. Racconterà:
Mio padre Giambattista, ferroviere socialista, era stato esonerato dal fascismo e, dopo due anni di disoccupazione, fu assunto dalla Edison. … Arrivati in città, mi stupirono gli odori: il gas di cucina, il ferrigno sapore del tram, il grasso di macchina che sentivo addosso a mio padre. A quindici anni, entrai anche io alla Edison, come dipendente.
La madre è ancora in Edison, lui deve lavorare ma non rinuncia allo studio. Dentro sente la passione per la recitazione e la scena; abbandona i liceucci per i corsi di recitazione dell’Accademia di Arte Drammatica. Confesserà ad Annachiara Sacchi che la vocazione gli era nata dentro quando era ancora bambino:
Intorno ai 5 anni, andai a vedere una recita di mio fratello all’oratorio della Bovisa. Da lì nacque la passione per il teatro. Durante l’estate i miei genitori mi mandavano nelle colonie della Edison, di cui mio padre era dipendente. Mi emozionavo davanti al palcoscenico e inventavo piccole storie.
Edisonvolta gli fornì la grande occasione, affidandogli l’organizzazione di quella che allora si chiamava la “ricreazione” dei dipendenti.
Tra il 1953 e il 1961, Ermanno realizza una serie incredibile di documentari sulla vita di fabbrica e le realizzazioni industriali di Edison. Il “Fuori orario” di Enrico Ghezzi, in Rai Tre, di tanto in tanto li riproietta: impressiona la nitidezza delle immagini e la tecnica delle riprese. Olmi era un autodidatta, un giovane impiegatuccio: eppure ha la capacità di trasmettere ai posteri un documento storico sul mondo “completo” che era quella società di uomini e donne organizzati nel lavoro di fabbrica e non. La fabbrica appare luogo di socializzazione, creatività, tecnologia, oltre che di produzione.
Il 1959 è l’anno del primo lungometraggio, “Il tempo si è fermato”, vicenda di amicizia fra il guardiano di una diga e uno studente: la montagna, le solitudini, i sentimenti ne sono i personaggi e il contesto. Ritorneranno nelle sue opere quasi sempre, insieme al profondo legame con la natura e il mondo “semplice”degli “ultimi”.
Nel 1961 “Il posto”. La trama è persino banale: lui e lei giovani provinciali in cerca di lavoro nella Milano del boom economico, troveranno “il posto”e il tormentato amore. Però sceneggiatura, fotografia e dialogo, sono di complessità bergmaniana, tanto da far inserire il film tra le cento pellicole italiane da salvare.
A quasi sess’antanni dall’uscita, “Il posto” assume anche caratteristiche di documentario, come spesso capita nella filmografia del maestro, sempre attento ai dettagli, con la fotografia indagatrice e spietatamente veridica. Il rapporto tra la campagna lombarda e il capoluogo allora industriale, ad esempio, viene trasmesso nella sconvolgente evoluzione, tutt’altro che indolore.
La cascina, casa degli affetti e delle storie (non necessariamente positive, anzi!) del parentado vasto e plurigenerazionale, diviene dormitorio per essere quindi abbandonato in cambio dell’appartamento piccolo e anonimo del cinturone urbano. Il silenzio e gli odori della campagna sono sostituiti dal frastuono cittadino e dai rumori della metropolitana in costruzione. Il pasto caldo e naturale della campagna dai piatti freddi e scotti di città. La cordialità di cascina, dalla competizione e dall’individualismo di fabbrica e città.
Il protagonista appare consapevole delle angosce legate al transito tra le due dimensioni: il suo smarrimento, che è lo stesso dei tanti volti e corpi di altri lavoratori che Olmi mostra dentro e fuori la fabbrica con asciutta solidarietà, esprime la dimensione esistenziale del rapportarsi, costi quel che costi, con il lavoro e conservare “il posto”, appunto. Anche l’amore dovrà cedere di fronte alla priorità assoluta dell’esigenza lavorativa, quando l’azienda separerà i due giovani. Olmi avrebbe detto del film:
I miei primi film sono storie sulla povertà ma in cui c’è sempre un po’ della storia del nostro paese. Il passaggio dalle società contadine a quelle operaie, o da queste alla nuova borghesia. Nel Posto lo si vede bene nella casa di Domenico, una cascina in cui non si lavora più la terra ed è diventata solo un dormitorio per gente che va a lavorare in fabbrica e in città. Tra poco in quelle stalle senza più animali avrebbero messo le Lambrette e le Seicento.
I premi e i consensi decretati a “Il posto” (premio della critica alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, David di Donatello 1962 per il miglior regista, Seminci 1962 Espiga de oro) gli stimolano una sorta di bis con “I fidanzati” (1963): anche qui giovani e lavoro la fanno da padrone.
Anni dopo, con un omaggio alle radici bergamasche, realizza “E venne un uomo” (1965) su Giovanni XXIII, Da qui, con suo fastidio, diventa per una certa critica pigra e bisognosa di etichette, il regista “cattolico”, definizione che si affannerà a rifiutare per l’intera vita. Dirà a Paolo Mereghetti, con intelligente ironia:
L’accusa più ricorrente, contro di me, è sintetizzata in una critica: “Si nota il limite cattolico dell’autore”, dissero di un mio lavoro, tanti anni fa, mentre io non ho mai neppure sottoscritto il cattolicesimo. Sono soltanto un aspirante cristiano e penso che la migliore ideologia consista nel non essere schiavi dell’ideologia.
In un’altra intervista ricorderà simpaticamente a Simona Ravizza come fin da piccolo si interrogasse sulla religione, senza trovare le risposte definitive:
Alzando un po’ la cresta da giovane studentello cercavo di criticare la fede di mia nonna, portandola sul piano della razionalità. Lei mi ascoltava e a un certo momento mi diceva: “Adesso basta. Lasciami credere come ho sempre creduto.
Olmi sa narrare la religiosità “popolare” e non scettica della gente “semplice” che ama filmare, senza che quasi mai scomodi attori professionisti. A lui quella fede non basta, e torna incessantemente nella sua opera l’interpello sulla grande questione dell’esistenza e dell’incontro con Dio, e della confusione nella quale l’illogicità del male del mondo getta l’umano. A Ravizza spiegherà:
Oggi quando preghiamo non appare il volto di Dio, ma una sorta di nebulosa. Ho la sensazione che Dio ha un grosso problema: non è riuscito a dividere il bene dal male. E per farci capire il suo tormento ci ha posto in queste condizioni. Allora chi prego, quando prego Dio? Prego qualcuno cui vorrei dare un volto, prego qualcosa che dovrebbe superare il limite della mia conoscenza tattile, della conoscenza che il mio sguardo ha del mondo. Noi nella preghiera dovremmo soprattutto condividere questo dolore di non riuscire a separare il bene dal male.
La consacrazione definitiva gli arriva nel 1978, con “L’albero degli zoccoli”che prende anche la Palma d’oro a Cannes: il mondo contadino viene mostrato come è ma le immagini e le parole hanno lo ricoprono di poesia. Barbara Palombelli, provando a spiegare il cinema di Olmi, con riferimento a “L’Albero” dirà:
Scomponendo e allentando tempi e ritmi, movimenti e sguardi, girando lui stesso come operatore molte delle sequenze dei suoi capolavori, ci ha costretto a fermarci – anche se soltanto da spettatori … sul massacro della civiltà rurale e contadina imposto dalla modernizzazione violenta del dopoguerra. E lo ha fatto in modo naturale: c’era la sua vita, c’erano i suoi valori, c’era il suo quadernino immaginario di ragazzino trasferito dalla campagna bergamasca alla Bovisa, il quartiere della sua adolescenza, nella scena finale dell’Albero degli Zoccoli.
Nel frattempo, l’incontro con Asiago e la decisione di lasciare definitivamente la città per la grande montagna sulla quale ha ora chiuso i suoi occhi. Ha raccontato di quella scelta a Roberto Brunelli:
Andai lì nel 1959 per girare il film dal Sergente nella neve di Rigoni Stern, ma i russi non lo consentirono, non ero garantito dal partito Comunista. Mi innamorai di questo altopiano, non avevo intenzione di sposarmi, l’idea del matrimonio e metter su famiglia la collego ad Asiago. Presi un sasso, lo posai in mezzo a un prato e mi dissi: se un giorno troverò una ragazza che mi darà la voglia di sposarmi, verrò qui. Così è stato, ho acquistato quel pezzo di terra, ho costruito la casa, dal 1965 sono vissuto fra lì e Milano, dal 1976 solo ad Asiago.
Tra parentesi, la ragazza che gli avrebbe dato “la voglia” di sposarsi sarebbe stata Loredana Detto, incontrata sul set di “Il posto”: gli avrebbe dato tre figli. A sposarli l’amico francescano padre Nazareno Fabretti, grande uomo di cultura oltre che di religione.
Olmi resta per un po’ fuori dal proscenio per una seria situazione di salute, causata dalla sindrome di Guillain-Barré, e solo nel 1987 ricompare con “Lunga vita alla signora!” premiato a Venezia.
A Venezia gli va anche meglio l’anno dopo: il capolavoro “La leggenda del santo bevitore”ottiene il Leone d’oro. Grandi riconoscimenti spettano anche a “Il mestiere delle armi” (Flaiano d’oro, Grolla d’oro e Globo d’oro nel 2001 e David di Donatello nel 2002) e a “Centochiodi” nel 2007.
La critica è tutta con lui e fioccano i premi alla carriera, espressione di gratitudine oltre che riconoscimento alla sua capacità di artista. Nel 2004 Locarno gli attribuisce il Pardo d’onore durante il Festival internazionale del film. Nel 2007 il premio Federico Fellini. Nel 2008 il Leone d’oro alla carriera.
La “carriera”, però, non è terminata. Olmi riprende a girare documentari e nel 2014 realizza “Torneranno i prati” sulla Prima guerra mondiale. Gian Antonio Stella gli farà narrare come ha lavorato:
nelle trincee ricostruite sui monti sconvolti dalla Battaglia degli Altipiani del 1916-17, mica in uno studio riscaldato di Cinecittà, con la macchinetta del caffè dietro la garitta.
All’epoca ha 83 anni. Dice tutto il commento della moglie, nel racconto di Gian Antonio Stella:
Loredana, la moglie, sospira incerta tra rassegnazione e orgoglio. Così è fatto, l’Ermanno. D’inverno! Di notte! Su e giù in groppa al gatto delle nevi!
Un anno prima l’università di Padova gli aveva attribuito la laurea honoris causa in Scienze Umane e Pedagogiche. La motivazione è un suggello all’attività di una vita, e suona come riconoscimento a una scelta morale, oltre che artistica:
per la sua azione di valorizzazione delle radici culturali, della memoria, delle tradizioni, della grande storia e dell’esperienza quotidiana e delle piccole cose.
Aiuta a capire da dove sia nata l’ispirazione a quella scelta di campo, quanto Olmi disse nella citata intervista a Brunelli, su Repubblica, l’anno di “Torneranno i prati”:
Tra i libri che io devo tenere sempre con me, ovunque vada, ci sono Tolstoj, i Vangeli e la Genesi. Ho bisogno di poter ricorrere a queste pagine in qualsiasi momento, è più forte di me.
Di Olmi ebbe a scrivere Giovanni Grazzini:
Ecco un esempio squisito di cinema moderno, fatto senza spreco di denaro, che toccando con dita leggere tanti tasti del vivere quotidiano trae l’anima dalle cose e dice il tumulto del cuore nascosto nei gesti. Ecco, ancora, un regista appartato che ritrova il timbro felice degli esori, e ripaga l’attesa fiduciosa degli amici con un racconto grave e gentile. … La mano di Olmi regista ha insieme grande sicurezza di taglio… e mirabile finezza di tocco… Perché il tessuto è svariato nel disegno e nel colore, con una vivacità e morbidezza di modi che fanno vero l’ineffabile. Perché gli attori, tutti sconosciuti, non sono personaggi di fantasia; siamo noi stessi.