Senza una scuola inclusiva e aperta l’Italia continuerà il declino

-di MAURIZIO BALLISTRERI-

I recenti gravi fenomeni di intolleranza degli studenti nelle scuole verso i professori, hanno riaperto il dibattito sul ruolo e la funzione della scuola in una società che dovrebbe essere avanzata come la nostra.  E sul tema ha suscitato un vespaio di polemiche l’articolo di Michele Serra su “Repubblica”, dedicato tacciato di radicalismo chic. Premetto che non apprezzo i radical chic, termine coniato quasi mezzo secolo fa, nel 1970 per la precisione, dallo scrittore statunitense Tom Wolfe, in occasione di una festa a cui parteciparono esponenti del bel mondo newyorchese, che il grande compositore Leonard Bernstein (quello di West Side Story) organizzò per raccogliere fondi in favore del “Black Panther”, movimento marxista e terzomondista. In Italia è entrato nella polemica politica per identificare quei settori della borghesia ricca impegnati nella sinistra radicale e gli esponenti di quest’ultima adusi agli agi, ai salotti e ai privilegi: la sinistra al cachemire o al caviale, che Ettore Scola immortalò nel suo bel film “La terrazza” del 1980. E premetto anche che ho trovato spesso Serra un giornalista settario, soprattutto ai tempi dell’Unità e della sua militanza nel Partito comunista, animato da una intollerabile vis polemica contro i socialisti, con una satira distante da quella arguta di Mario Melloni, al secolo Fortebraccio.

Mi pare, però, che nel suo articolo sulla scuola Serra abbia voluto, contrariamente alle interpretazioni di certa parte politica, che non difende i valori democratici e popolari ma esprime la versione più becera e deteriore del populismo, cogliere le contraddizioni sociali ancora insite nelle scelte che i ragazzi sono costretti a compiere per i loro studi, a causa delle perduranti forti differenze di classe della società italiana.

Alla vigilia del Natale del 1962 fu approvata dal primo centro-sinistra (quello vero nato con l’alleanza tra la Dc di Fanfani e Moro, il Partito socialista guidato da Nenni, i socialdemocratici di Saragat e i repubblicani di La Malfa, non quello liberista e monetarista della II Repubblica) la legge n. 1859, che istituì la scuola media unificata, applicando finalmente la Costituzione della Repubblica, con la previsione di otto anni di scuola gratuita e obbligatoria per tutti. La scuola media unica, insieme alla statalizzazione dell’energia elettrica, costituì l’elemento fondamentale sul piano programmatico per quella nuova alleanza, per archiviare la stagione del centrismo, le spinte più reazionarie della politica nazionale manifestatesi con l’esperienza del governo-Tambroni nel 1960 e l’alleanza filosovietica del Psi con i comunisti.  E fu così, che nel 1963/64 le nuove scuole medie aprirono le porte a circa 600.000 ragazzi e ragazze, figli di operai, contadini, artigiani, piccoli commercianti e braccianti, che fino ad allora non erano andati oltre la quinta elementare o l’“avviamento professionale” secondo le norme fasciste del 1928.

Il movimento verso la scuola non riguardò solo la generazione direttamente interessata dalla riforma ma tutta la parte “popolare” del nostro Paese. Non solo i bambini e ragazzi ma anche gli adulti e gli anziani, che prima erano fermi a condizioni culturali di estrema arretratezza, conobbero la diffusione del sapere; una diffusione che riguardò le campagne e le periferie-ghetto delle megalopoli industriali, le scuole serali si riempirono di giovani operai, la Rai, a quel tempo, creò meritori programmi di alfabetizzazione, sublimati da “Non è mai troppo tardi” del maestro Alberto Manzi. L’analfabetismo totale – “il non sapere leggere, scrivere e far di conto” che con la “Scuola di Barbiana” don Milani tentò di sconfiggere – passò dal 13% del 1951 a percentuali in linea con il resto d’Europa. E quella legge di grande riforma sociale voluta dal centro-sinistra, al pari dello Statuto dei lavoratori e della sanità pubblica, nell’ambito della costruzione di un vero sistema di Welfare State in Italia, consentì la diffusione della scuola e dell’università di massa, che esplosero poi con il ’68.

Anni dopo, commentando la straordinaria crescita culturale e la mobilità sociale provocate dalla legge sulla Scuola Media Unica, Tristano Codignola, il deputato socialista che ne aveva elaborato il testo, ebbe ad affermare, giustamente, che essa: “mise fine a una discriminazione di classe che partiva per i bambini italiani fin dagli undici anni condizionandone pesantemente le scelte e le opportunità successive. Chiunque abbia seguito e segua l’andamento della politica scolastica ha viva la sensazione, guardandosi indietro per questi quindici anni, della stretta corrispondenza intercorrente fra lo sviluppo democratico del Paese e lo sviluppo democratico della scuola, e quindi della corrispondenza fra i momenti di involuzione del Paese e i momenti di involuzione della scuola; è perciò appena il caso di sottolineare che il giudizio sulla situazione evolutiva nella quale ci stiamo avviando in sede di politica generale è nello stesso tempo il giudizio sulla tendenza evolutiva o involutiva della politica scolastica”.

Parole di grandi attualità anche oggi, in cui il declino della società italiana, il suo drammatico arretramento sociale verso il basso e il suo evidente impoverimento culturale, con intere generazioni annichilite da programmi televisivi spazzatura (proposti non solo dai canali commerciali ma anche da quelli pubblici, in cui mediocri personaggi percepiscono retribuzioni milionarie, alla faccia della povertà diffusa) sono frutto dello svuotamento delle funzioni che in una società orientata dall’etica del lavoro e dalla stella polare del progresso dovrebbe avere la scuola: diffondere la cultura e i valori civici, promuovere la tolleranza democratica, sostenere l’ascesa sociale verso l’alto. Ma la scuola pubblica purtroppo (come del resto l’università), versa in condizioni di abbandono, grazie a (contro)riforme come quelle “Gelmini” del governo-Berlusconi nel 2008 e della cosiddetta “Buona scuola” di Renzi.

Nessuno ha, ovviamente, nostalgie per la scuola dei maestri con la bacchetta in mano, né per quella classista tratteggiata nel libro “Cuore” da Edmondo de Amicis, che proprio nelle pagine del suo libro descrive le forti differenze sociali del tempo, che egli nei suoi scritti successivi, riteneva da superare attraverso una concezione socialista tipica del riformismo gradualista, della conciliazione tra le classi e del progresso sociale; ma la rivendicazione, questa sì, di una scuola pubblica che dia a tutti pari opportunità di partenza per la vita. E un paese senza un sistema scolastico inclusivo (ed efficiente!) per formare i ragazzi, è destinato a scivolare nel baratro dell’arretratezza.

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

2 thoughts on “Senza una scuola inclusiva e aperta l’Italia continuerà il declino

  1. Purtroppo la scuola media unica non è bastata a rendere l’armonia dei cicli più consona a favorire una crescita non solo culturale ma anche formativa degli alunni. Si è fatto come con la riforma Biagi, una parte sì e l’altra che doveva prevedere gli ammortizzatori sociali no, come l’Europa, unione monetaria sì, ma politica no. Senza creare anche un biennio unico e direi un ciclo di maggiore raccordo tra medie e superiori, le distonie non solo sono rimaste, ma si sono anche accentuate, e quelle che prima erano le differenze tra ginnasi ed avviamenti professionali, oggi sono le differenze tra istituti professionali o tecnici e licei. LE cose fatte a metà sono quelle che danno palliativi e poi conseguenze anche più rovinose delle precedenti.

  2. Penso che la scuola italiana abbia delle buone leggi. Le controriforme citate nell’articolo hanno solo pasticciato un po’, ma hanno inciso poco. Il problema della scuola è altrove. Non sta nelle leggi. Anzi, se le leggi attuali venissero applicate, si aprirebbe la strada all’inclusione.

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