Il lato vero dell’economia: disavanzo di bilancio e politica economica keynesiana

-di FRANCO CAVALLARI-

Il tema della riduzione della pressione fiscale, classico cavallo di battaglia della destra economica, ha fatto bella mostra di sé tra i punti programmatici prioritari di quasi tutti gli schieramenti politici. In particolare, il populismo sovranista, più propenso più a lanciare slogan di facile presa che non ad argomentare, ha usato questo tema per suscitare il consenso anche delle classi meno abbienti, ben prima dell’ultima campagna elettorale. Non è un caso che,  lungo il percorso della crisi di crescita dell’economia italiana dell’ultimo decennio, questo slogan sia riecheggiato anche nei programmi del Partito Democratico, dimentico della lezione Keynesiana ed intento ad inseguire il successo della destra su questo terreno.

Non di meno, la ricetta per rilanciare l’economia di un Paese come l’Italia, afflitto da grandi difficoltà nel dare slancio alla sua crescita a causa soprattutto del suo abnorme debito pubblico, pur in un contesto internazionale in ripresa,  è scritta a chiare lettere su tutti i testi di economia degli ultimi 40 anni. E’ impropriamente detta “teorema del bilancio in pareggio” ed è stata elaborata partendo dalla dottrina Keynesiana, dal grande economista norvegese, Premio Nobel postumo per l’economia nel 1989, T. Haavelmo; un nome ben presto dimenticato dai “policy makers” neoliberisti e anche da molti accademici e uomini politici di sinistra.

Ridotto all’essenziale, il “teorema di Haavelmo-Schneider” enuncia un principio abbastanza semplice : in determinate condizioni,  a parità di  disavanzo pubblico,  un aumento di eguale importo delle entrate e delle spese pubbliche genera un aumento del reddito pari all’aumento di spesa. Senza entrare in particolari, diciamo soltanto che, alle condizioni date, l’aumento del reddito che consegue dalla manovra è dovuto al fatto che il moltiplicatore Keynesiano del reddito delle maggiori spese pubbliche è superiore al moltiplicatore che le stesse risorse hanno presso i privati, in ragione della propensione al consumo, più grande presso la P.A rispetto ai privati che, invece, ne risparmierebbero una parte. In altri termini, la domanda aggregata dei privati aumenta  solo per una quota, (quella destinata al consumo) del reddito sottratto dall’imposta alla loro disponibilità, mentre l’aumento di spesa pubblica dello stesso importo si traduce per intero in aumento di domanda aggregata generatrice del maggior reddito.

 Naturalmente, il teorema così riassunto funziona a condizione che siano verificati alcuni presupposti, come, d’altronde, avviene per l’applicazione di qualsiasi teorema economico.

In primo luogo è necessario che la manovra in questione sia inserita in un quadro di crescita di medio periodo che privilegi gli investimenti. E’ poi indispensabile l’esistenza nel mercato, sia di una domanda potenziale da attivare con la maggiore spesa pubblica, sia di margini di aumento della produzione, vale a dire la disponibilità di fattori della produzione attivabili dall’aumento della  spesa pubblica.

E’ anche necessario che la maggiore spesa abbia un carattere selettivo, ossia che sia indirizzata verso settori in grado di alimentare proficuamente il ciclo produttivo; così come una certa selettività è richiesta anche nel prelievo suppletivo, nel senso che, onde evitare il disseccamento delle possibilità di finanziamento autonomo della produzione,  l’incremento delle imposte deve interessare settori in cui le risorse sono per loro natura poco attive nel circuito produttivo. Va inoltre sottolineato che il presupposto finanziario essenziale per il funzionamento del postulato sommariamente descritto è dato da una pressione fiscale non esageratamente elevata, che renderebbe impossibile trovare gli spazi per un aumento delle imposte non distruttivo per la base produttiva.

Esempi della manovra descritta si ritrovano nell’esperienza del welfare realizzato nei Paesi scandinavi, i quali, nella seconda metà del secolo scorso, hanno conseguito tassi di crescita abbastanza elevati, senza gravare troppo sul disavanzo della finanza pubblica; in sostanza, gran parte dell’aumento di spesa pubblica investita nel benessere sociale è stato finanziato con aumenti d’imposta. Un’applicazione parziale dei principi qui descritti e riscontrabile anche nel New Deal negli Stati Uniti degli anni ‘30, in gran parte finanziato in disavanzo secondo la ricetta classica di Keynes, ma che coprì, comunque, una parte non trascurabile delle maggiori spese con aumenti d’imposta, specie sui redditi più elevati. Malgrado costituisca un caso particolare, in quel periodo l’economia statunitense ha affrontato la  2a guerra mondiale mantenendo entro limiti tutto sommato contenuti il disavanzo pubblico; nello stesso modo, finita la guerra, ha assicurato al Paese il finanziamento di un livello del benessere sociale così diffuso come gli USA non avevano mai conosciuto prima e che, probabilmente, non  raggiungeranno  mai più in futuro.

Dalla fine degli anni ‘60,  l’economia occidentale, dominata dall’egemonia culturale del neoliberismo e del monetarismo, ha messo da parte la lezione di Keynes, attribuendo alla sua dottrina la responsabilità dei disastri derivanti, in molti Paesi (tra cui l’Italia), dagli eccessi di spesa pubblica perpetrati in suo nome.

Con riferimento al nostro Paese possiamo dire che questo clima culturale neoliberista ha trovato  condizioni di diffusione particolarmente favorevoli, specie dopo gli anni ‘80.  Lungo la linea delle numerose crisi susseguitesi nel corso degli anni, il neoliberismo ha consegnato ai populismi, sorti sulle macerie economiche della crisi epocale dell’ultimo decennio, la fiaccola del sentimento contrario a tutto ciò che sa di tasse e di spesa pubblica per investimenti sociali. Questo processo di diffusione dell’avversione alle imposte e alle spese pubbliche, complice lo spreco di risorse, dilapidate per molti anni attraverso i disavanzi di bilancio, è dilagato, non solo presso il ceto medio (il ceto più fortemente colpito dalla crisi), ma ha catturato anche i ceti meno abbienti; proprio le classi sociali che, secondo logica e in base alle esperienze storiche citate, non avrebbero nulla da temere dal lato delle imposte e molto da guadagnare in servizi sociali e trasferimenti dal lato delle spese pubbliche.

Per quanto riguarda la situazione economica attuale del nostro Paese, stretta dai nodi dell’immane debito pubblico, non dobbiamo nasconderci che gli sforamenti del disavanzo pubblico dello 0,3-0,6% del PIL nei confronti dei  vincoli posti da Bruxelles,  richiesti più volte dal Governo italiano, pur utili alla costituzione di un quadro macroeconomico favorevole alla crescita, non possono rimuovere significativamente gli ostacoli che si frappongono al rilancio dell’economia del nostro Paese.

In questo contesto, il varo di una manovra nei termini sopra descritti, potrebbe risultare se non risolutivo, almeno proficuo  negli anni a venire. Unitamente  ad altre azioni dello stesso segno,  consentirebbe un consistente aumento del reddito, foriero di occupazione remunerativa, senza modificare i saldi di bilancio. Ma se consideriamo il quadro politico esistente, non c’è da farsi molte illusioni al riguardo.

Sarebbe, però, molto utile, non solo alla sinistra, ma anche al Paese, se i progressisti italiani (anche nella loro parte moderata) cessassero di rincorrere la destra nel rifiuto della tassazione; non tanto proponendo direttamente una manovra come quella oggetto del presente articolo (che dato il contesto attuale sarebbe chiaramente impopolare), quanto riflettendo seriamente su questi temi e approfondendo la possibilità di un’azione di lungo periodo volta a diffondere , specialmente nei ceti popolari, la cultura del welfare; quella cultura che considera la tassazione e la spesa pubblica oculata e responsabile come  presupposti fondamentali per la riduzione delle diseguaglianze e per il riavvicinamento, negli anni, dei punti di partenza, anche al fine di riavviare l’ascensore sociale, bloccato nel nostro Paese da diversi decenni..

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