Adriano Sofri e la sua “variazione di Kafka”

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

Negli ultimi istanti di vita, piagato dalla malattia, Kafka non voleva alcun accanimento sul suo corpo. Desiderava finirla il prima possibile. Soffrire gli era divenuto troppo pesante. Aveva allucinazioni. Scambiava il medico che lo accudiva e teneva in cura negli ultimi istanti, Robert Klopstock, per sua sorella. Lo cacciava via perché non desiderava essere visto in quelle condizioni.

Mentre Klopstock stava riordinando un po’ di cose, Kafka lo pregò di non andar via, di non lasciarlo solo. “Non me ne vado”, gli rispose Klopstock. E Kafka: “Ma vado via io”.

Ho voluto ricordare questo episodio della vita di Kafka perché mi sembra un buon punto di partenza per parlare dell’ultimo libro di Adriano Sofri. Quell’appello lanciato dallo scrittore – “Non vada via. Non mi lasci solo” – Sofri lo ha fatto suo: ne ha accolto in sé l’eco trasformandolo in scrittura. Una variazione di Kafka è altamente kafkiano. È un libro che, per sua natura, appartiene alla tradizione tipica della novecentesca Mitteleuropa e che solo un triestino, quale Sofri è, sarebbe stato in grado di scrivere.

Di cosa parla? È presto detto. Nel bel mezzo della lettura de La metamorfosi, tradotto per la Bur da Anita Rho, Sofri nota che vi è una discrepanza, all’inizio della seconda parte del racconto, fra la versione italiana e l’originale. Al posto di “lampioni” vi è “luci del tram”. Da questo spunto, inizia la ricerca per comprendere i perché di una sostituzione in apparenza ingenua e arbitraria. È una scelta che non si può imputare ad incompetenza della traduttrice – la Rho è fra le migliori che l’Italia abbia avuto. Sofri allora prova a vedere se anche in altre versioni e in altre lingue si riscontri il medesimo errore. E con sorpresa, nota che si ripete. Una coincidenza? O uno sbaglio voluto?

Per rispondere a queste domande, e a tante altre, inizia un dilettantistico – nel senso saviniano di piacere della scoperta e del sapere pur non possedendo gli armamentari degli specialisti –, esercizio filologico. Sofri esercita il suo amore per la parola in una lingua che non maneggia alla perfezione: il tedesco. E tuttavia non rinuncia ad andare a fondo, a indagare e ipotizzare motivi che abbiano indotto a scegliere una traduzione piuttosto che un’altra.

Da questo amore per la parola, è un universo che si squaderna. Un mondo ben lontano dall’essere di carta e immobile. Esso è vivo, popolato da persone straordinarie che hanno svolto il lavoro di traduttori per semplice coincidenza o diletto, e poi si sono messi a fare tutt’altro. Per Sofri la filologia non è mai banale “critica degli scartafacci”, come con disprezzo verso Contini la chiamava Benedetto Croce, bensì occasione e ispirazione per conoscere esempi di vite da raccontare ai lettori (insieme, naturalmente, alla ricchezza e complessità di un testo come La metamorfosi). È il caso di Margarita Nelken – donna straordinaria cui Sofri dedica un delizioso ritratto letterario –; oppure di Borges e delle sue ambigue meschinerie in virtù delle quali si è appropriato lungo di una traduzione che non ha mai fatto.

Un amore per la parola e le sue origini – filologia, per l’appunto – che diviene anche dilettevole lettura critica della Metamorfosi. Non per imprigionarla in una interpretazione, ma per moltiplicarla e renderla vera opera aperta. Esercizio, quest’ultimo, difficile da tentare. Un rischio. Una scommessa. Una trappola anche? Certamente sì. Alla quale Sofri, però, non si sottrae. Egli si è trovato di fronte a un bivio: o spiegare come e perché si è commesso un errore di traduzione, oppure offrire l’ennesima esegesi su Kafka, aggiungendola alle migliaia già esistenti. E che ha fatto? Ha scelto una terza soluzione: indagare quello che Genette chiamava l’epitesto (l’insieme degli elementi esterni al libro la cui conoscenza può arricchirne la comprensione), gettando uno sguardo sulla complessità della Metamorfosi e sulla vita stessa di Kafka.

E così, in un continuo gioco di luci e ombre, di chiarezza che s’alterna all’oscurità, Sofri individua le ragioni biografiche che hanno consentito ad un’architettura narrativa, come quella della Metamorfosi, di strutturarsi così come la conosciamo. Il tutto senza dare a questa chiave di lettura alcuna parvenza di fissità. Semmai, essa ha gli aspetti del lavoro proprio di un flâneur: la mobilità, i colori e la piacevolezza. Così facendo, Sofri è riuscito anche ad offrire una probabile spiegazione sulla parte conclusiva del racconto, che non piaceva a Kafka, ricollegandola al punto di partenza che ha dato il via all’intera indagine (la luce del tram al posto di quella dei lampioni). Finale che non svelo, per non togliere il gusto ai lettori di scoprirlo da soli.

Si può definire Una variazione di Kafka come un libro non sull’autore praghese, ma sua espressione diretta? Direi di sì. Semplicemente perché ciò che in esso si racconta: i vari episodi che si incastonano fra loro, in modo così apparentemente casuale e che finiscono per comporre un polittico equilibrato e preciso: la paradossalità di alcune storie che vengono narrate: tutto ciò fa pensare alle vicende raccontate nel Processo o nel Castello. Come in questi romanzi, anche il libro di Sofri parte da un dettaglio apparentemente innocente. E proprio quel particolare diviene il motore di un racconto con storie e personaggi straordinari. Ciò che costituisce, per gli specialisti su Kafka e i suoi appassionati, una novità prima mai tentata. Dubito che tutto ciò sia il frutto di un disegno progettato razionalmente. Se ciò fosse, verrebbe meno – nel libro – quella componente kafkiana di cui parlo. Semmai, credo che Sofri abbia preferito lasciarsi prendere per mano e condurre senza sapere bene la meta dove sarebbe giunto. Decisione coraggiosa che interpreta l’arte dello scrivere come scoperta continua. Per dirla con le parole di Roberto Calasso: “Si scrive un libro quando si è precisato qualcosa che si deve scoprire. Non si sa che cos’è né dov’è, ma si sa che si deve trovarlo. Allora comincia la caccia. Si comincia a scrivere”.

Sofri ha preso un po’ dell’arte del pasticheur alla Proust e di mimesi critica alla Sainte-Beuve; e con questi due elementi ha navigato l’universo di Kafka e di coloro che, per  puro caso o scientemente, si sono trovati a incrociare la strada del grande autore praghese. Ne è nato un libro delizioso ed erudito, la cui lettura non solo dà un esempio di stile ma anche di vita. Quella di uno scrittore che ha saputo catturare dei bagliori di luce (e poco importa se di un tram o di un lampione) per illuminare oscure esistenze. Esistenze che, a ben pensarci, possono appartenere alla nostra vicina quotidianità.

pierlu83

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