La “Follia maggiore” di Alessandro Robecchi

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

Alessandro Robecchi, già autore teatrale e radiotelevisivo, è tra i maggiori scrittori contemporanei. Dotato di un’ironia graffiante e arguta, attraverso i suoi romanzi – gialli o noir che si vogliano definire – descrive da anni le caratteristiche dell’Italia di questi ultimi tempi. Ne dipinge gli umori delle persone, i dubbi, le crisi sociali, le nefande conseguenze che questo insieme di concause possono avere sul quotidiano. E lo fa utilizzando il riso come arma non solo di derisione, ma soprattutto di riflessione.

Il suo ultimo libro, Follia maggiore, racconta le bizzarrie di un vecchio benestante, che ama concedersi alcuni vezzi – come quello di farsi leggere pagine di un romanzo di Zola da una gaudente signorina a pagamento –, le cui vicende finiscono per intrecciarsi con il misterioso assassinio d’una donna. Nella risoluzione di questo intricato caso, emergono situazioni tipiche del nostro tempo: la crisi economica, i disagi della classe sociale media (che non riesce più a realizzare i suoi progetti di vita con le proprie forze e con mezzi leciti), un sistema massmediatico e informatico tutto incentrato e far numerosi ascolti di pubblico ma poco intento a realizzare prodotti di qualità.

Fra gli autori degli spettacoli di Maurizio Crozza, ma anche giornalista (fu caporedattore del settimanale satirico Cuore e oggi una delle firme di punta del Fatto Quotidiano) e creatore dei primi corsivi di Ballarò e della striscia quotidiana Piovono Pietre (andata in onda su Radio Popolare per cinque anni), Alessandro Robecchi nell’ironizzare su alcuni aspetti della realtà, associa al riso un aspetto tutt’altro che secondario: quello dell’informazione: consapevole, critica e sempre attenta a ciò che accade intorno a noi.

Follia maggiore, il suo ultimo libro, è già un successo editoriale. In che modo i protagonisti Monterossi-Falcone e Ghezzi-Carella sono cambiati, o stanno cambiando, se stanno effettivamente cambiando?

Sono quattro personaggi, due coppie di investigatori, che mi porto dietro da tempo, e sì, certo, cambiano, evolvono, precisano i loro caratteri, vivono esperienze nuove… i personaggi sono esattamente come noi, non siamo sempre uguali. Carlo Monterossi si è fatto forse più riflessivo? O Carella più duro? Può essere, ma è la storia che comanda: mi piace disegnare le reazioni dei miei personaggi di fronte a quel che succede, è un modo per descriverli e anche per precisarne i contorni.

A suo dire, il genere del romanzo giallo indaga meglio di altri alcune caratteristiche della società italiana?

Dice Petros Markaris, il grande giallista greco, che oggi il noir è il nuovo romanzo sociale. Sono abbastanza d’accordo, ma vorrei porre una condizione: che non sia sociologia travestita da romanzo. La cosa è al tempo stesso più semplice e più complessa. Quando si indaga su un delitto bisogna per forza indagare sul contesto, l’ambiente, la società, le dinamiche sociali, personali, affettive, economiche… E al tempo stesso più l’indagine si avvicina alla società vera, ce la mostra, ce la descrive, e più la vicenda gialla è credibile… Perché conosciamo la San Pietroburgo della metà dell’Ottocento? Perché abbiamo letto Delitto e castigo. La piccola borghesia francese ce l’ha spiegata Simenon con Maigret… potrei continuare, ma insomma… E poi il genere giallo è molto ampio, uno può cercarci quello che vuole, ma certo il semplice meccanismo delitto-indagine-soluzione, se non ha un contesto intorno, non ha senso.

Il titolo di questo libro prende spunto da un verso dell’opera di Rossini Il Turco in Italia. Quanto c’è della sua esperienza di critico musicale nella scrittura di Follia maggiore? Glielo chiedo perché vi sono molte pagine in cui si nota un linguaggio tipico della critica…

“Critico musicale” è una qualifica troppo impegnativa, non sono degno. Ho scritto molto di musica, soprattutto rock e vari derivati per molti anni. In più sono un dylaniano accanito. Per paradosso Rossini (e certe cose della lirica) è una scoperta recente, un grande innamoramento. Nel romanzo mi serviva una componente leggera, direi libertina e licenziosa… volevo giocare con il melodramma (da opporre al dramma della vita vera che si racconta nel libro) e Rossini è perfetto. Aggiungo una cosa: ci lamentiamo sempre che mentre i francesi dell’Ottocento sfornavano capolavori in continuazione… Zola, Balzac, Stendhal, Hugo, noi eravamo lì come attaccati al Manzoni. Ecco, non è vero. Il nostro grande romanzo ottocentesco è stato il melodramma… Rossini, Puccini, Verdi… Credo sia giusto togliere la polvere e le ragnatele a queste cose, che sono preziose e modernissime. Oltre che belle, e questo conta.

La Milano che lei descrive in questo libro è dominata dalla pioggia. Costantemente. Questa prevalenza di un’atmosfera uggiosa con pochi spiragli di sole può essere, in qualche modo, una metafora dei nostri giorni?

Come le battute, le metafore non si spiegano. Certo, nel romanzo c’è un’aria cupa che la pioggia amplifica. Ma non è solo questo, ovviamente. C’è che si tratta di un’indagine difficile, scomoda, che scava in grosse porcherie umane. E io volevo che si vedesse la fatica. I miei poliziotti, Ghezzi e Carella sono sempre fradici, incazzati, umidi, bagnati dagli schizzi delle macchine… C’è una fatica in questa opera di fare giustizia e volevo che fosse quasi fisica, che il lettore, in certi passaggi, si senta un po’ bagnato anche lui…

Lei è sempre stato uno scrittore attento alla realtà – a ciò che accade e a come le cose avvengono. Cosa pensa di questo momento particolare che l’Italia sta vivendo?

E’ una domanda molto impegnativa, non saprei. C’è la confusione che si presenta ad ogni cambio d’epoca, lo stordimento che il mondo non è come prima e non si sa come sarà dopo. Credo però che il paese abbia urgente bisogno di una sinistra popolare, attenta ai diritti, che difenda il lavoro invece di umiliarlo come ha fatto finora. Sinceramente non credo che un cambiamento verrà da un governo o da un altro, da una maggioranza o da un’altra. Credo che si debba rivalutare il conflitto sociale, che diritti e conquiste si sono avuti quando si è mossa la gente, e non questo o quel leader…

Il mondo di questi ultimi tempi, a suo dire, rischia di superare la satira o siamo ancora a livelli normali?

Ma non si supera mai la satira! Per quanto assurdo possa essere un comportamento umano, gli appigli per renderlo ridicolo sono sempre tantissimi. E poi, pare che il mondo vada nuovamente verso la fascinazione dell’uomo forte. E uno dei modi migliori per difendersi dall’uomo forte è prenderlo per il culo. Riuscire a farlo in modo superbo come fece Chaplin con Hitler è un altro discorso, ovvio, ma non è un caso che i dittatori per prima cosa zittiscano la satira, l’arte non allineata, la barzelletta contro il regime. Sanno che ridere è un atto eversivo, e per questo bisogna continuare a farlo.

Come definirebbe l’ironia (che una delle sue doti migliori, insieme ad uno stile di scrittura limpido, immediato e di grande senso del ritmo)?

Ora non esageriamo… non saprei definire l’ironia. Certo è un modo laterale di vedere le cose. Di più: è saper vedere il ridicolo delle cose, dalle più piccole alle più grandi, è una specie di anticorpo. Su tutto si può fare ironia, si può ridere di tutto, e questo rende tutto più relativo.

Sta già pensando a un prossimo libro?

Non penso mai al prossimo libro e quindi ci penso sempre. Ma non è che uno si siede lì e ci pensa… voglio dire che una storia ti matura lentamente in testa, che si parte da “cosa voglio dire?”, “cosa mi interessa?”. Torto marcio nasceva da alcune domande sulla giustizia, se sia possibile chiamarla ancora così o addirittura se sia possibile “fare giustizia” … Follia maggiore si basa sul rimpianto e sulla sciatteria del male. La storia nasce intorno… E quindi no, non ci penso al libro… ci penserà lui a saltar fuori.

Progetti futuri – spettacoli, programmi televisivi…?

Non so… niente che possa dire di preciso. Si lavora per portare le storie del Monterossi sullo schermo, ma come e quando si vedrà.

 

pierlu83

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