Il PD e il peggio che verrà

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

 

A conti fatti, per il Partito Democratico questa campagna elettorale si sarebbe potuta chiudere anche peggio di così. Non c’è niente da fare: una certa parte di italiani, ormai, non ha più fiducia in questo partito e, soprattutto, nel suo segretario.

Che la sconfitta fosse presagita, lo lasciava intendere l’atteggiamento generale di Renzi: all’apparenza sicuro di un risultato positivo. Tanto da aprire la sua campagna dicendo che non vi sarebbe stata altra soluzione che votare il suo partito e lui come Premier. Per non farsi mancare niente, ha anche lanciato moniti: “Chi vota per Liberi ed Eguali, fa un favore alla Lega”. “Chi vota il Movimento Cinque Stelle, sceglie l’incompetenza al potere” (dimenticando le specificità tecniche della Lorenzin alla sanità). È come scoraggiare un bambino dal far dispetti: che potrà succedere? Che li fa.

In questi mesi, Renzi non ha che sbandierato i successi – presunti e reali – ottenuti dal suo governo e da quello di Gentiloni. Ha lodato efficienza e coerenza del passato, e la fattibilità di quello che farà in futuro. Avvenire che ha dato per scontato invece di rimetterlo, come saggiamente la classica seppur noiosa politica insegna, nelle mani degli italiani. In parecchie ospitate televisive, non contento, ha anche portato un volantino con su indicati gli indiscutibili – a suo dire – successi (come gli scolaretti che ostentano il loro compito col dieci e lode in bella vista). Un Renzi primo della classe. Bene! Bravo! Promosso? Macché! Bocciato!

Come mai? Per un altro errore madornale: perché i cosiddetti “secchioni” sono sempre stati antipatici. A tutti, compresi i bravi che, silenziosamente, fanno il loro dovere senza andare a sbandierarlo ai quattro venti.

A onor del vero, quasi da parte di tutti i candidati di ogni partito questa campagna ha registrato una sicumera mai vista. Fino a qualche tempo fa, si battagliava all’ultimo sangue per ottenere un voto. Queste elezioni hanno visto politici che si decretavano già vittoriosi. Renzi, naturalmente, si è adeguato a tale atteggiamento generale. Ma in che modo?

Presentandosi in maniera eccessivamente virtuosa, come – coi dovuti riguardi – Palmiro Togliatti, che parlava benissimo e vestiva ineccepibilmente. L’ancora segretario del PD parla discretamente, veste in modo abbastanza stereotipato ma, a differenza di Togliatti, ha poco o niente del comunista.

In più non ha saputo variare i suoi discorsi. Ad ogni intervista o comizio, non faceva che ripetere le stesse cose e dispensare i medesimi moniti. Anche questa eccessiva coazione all’eguale, non ha giocato a favore.

Ma il punto cardine di questa sconfitta, però, è un altro. È che forse molta gente non si sente più rappresentata dal PD. Lo vede come un partito poco connotato e privo di una specifica identità. Non è argomento nuovo, questo. Fin dall’inizio alcuni suoi padri fondatori –  da Massimo Cacciari in giù – vedevano nel Partito Democratico una concentrazione di diversità e prospettive culturali inconciliabili che, prima o dopo, avrebbero finito per massacrare l’intero progetto. Qualsiasi segretario, oltre a dover combattere per acquisire in fiducia e consensi nell’elettorato, ha dovuto faticare non poco a tenere in piedi un disegno stentato che avrebbe retto pochissimo.

Anche la fuoriuscita di alcune personalità d’un certo peso politico (massmediatico e di voto) – tipo Pietro Grasso –, non ha giocato a favore. Tutt’altro. Ha gettato nello sconforto degli elettori già insicuri che, a vedere questa ulteriore frantumazione, si è disamorata del tutto dal PD e ne ha sottoscritto l’addio, ufficializzandolo con queste elezioni.

Tutto ciò non deresponsabilizza l’attuale segretario dalle sue colpe. Renzi non ha fatto granché per rendersi simpatico. In questi anni, non ha che recitato la parte del più o meno bislacco prepotente, che prova gusto a indisporre compagni e collaboratori con le sue scelte. Quasi a voler dire: “Il capo sono io. Chi non è d’accordo, può andarsene”. Ciò che è successo.

La morale di tutta questa storia e del suo tristissimo epilogo, non sta a noi scriverla. La verità è che non basta partecipare a trasmissioni televisive e fare qualche battuta più o meno riuscita per far sentire una parte di società appartenente a un’idea di partito.

Se Renzi si fosse mostrato più incline all’ascolto e meno smargiasso, la sua percezione nell’elettorato sarebbe stata maggiormente favorevole. Questo non vuol dire che avrebbe vinto ad occhi chiusi. Magari avrebbe potuto perdere ugualmente: chi lo sa? Di sicuro, si sarebbe però potuto presentare agli italiani iniziando un discorso dicendo: “Abbiamo lavorato tanto, e non ci possiamo fermare perché dobbiamo riconquistare la fiducia di molte persone. È quello che faremo nei prossimi giorni”. E, magari, sarebbe stato creduto.

Ma chi ha fatto il gradasso fino a qualche ora fa, come può presentarsi col capo cosparso di cenere e pretendere di ottenere fiducia? Questa è la domanda che molti elettori si sono posti – in tanti si saranno dati già una risposta – e che farebbero bene a farsi anche internamente al PD.

E concludendo in bellezza: questo periodo di opposizione – non si sa quanto lungo – potrebbe far bene a Renzi e al Partito Democratico? Forse. Il punto è che bisognerà opporsi anche agli ex compagni. Ciò che vorrà dire barcamenarsi bene e con classe, senza correre il rischio d’essere etichettati, per il PD, come un partito non di sinistra.

Mala tempora currunt. O, per dirla con Flaiano: “Non preoccupatevi: il peggio deve ancora venire”.

 

pierlu83

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