-di MAURIZIO BALLISTRERI-
Il bieco elettoralismo dei satrapi del potere della Seconda Repubblica, ma anche i gravi errori dei socialisti a vario titolo presenti nello scenario politico, non cancellano la grande attualità della “Questione-socialista” in Italia nei confronti della sinistra italiana o, per meglio dire, rispetto a ciò che rimane di questa grande tradizione. Si, proprio quella “Questione-socialista” che dopo il giugno 1976 e il Midas venne rilanciata sulle colonne di “Mondoperaio”, con, tra gli altri, l’intervento magistrale di Norberto Bobbio sul tema del rapporto tra sinistra e pluralismo, in un tempo in cui la concezione dell’egemonia di stampo gramsciano era maggioritaria nel campo progressista, non solo comunista.
In questi anni si è assistito, purtroppo, ad una sinistra che al governo ha dato luogo a norme regressive sui diritti del lavoro, all’attacco sistematico ai sindacati (che, di loro, hanno compiuto molti errori, soprattutto a dividersi nel recente passato e a non contestare con l’adeguato conflitto sociale le politiche del governo-Monti-Fornero), ad una politica economica sul lato dell’offerta, all’abbandono del Mezzogiorno: insomma: l’antitesi di una visione socialista riformista. Ciò è avvenuto nel mentre la destra si è riorganizzata lungo l’asse sovranista, termine del politically correct per non dire di tipo nazionalista, Belusconi-Salvini-Meloni e dando vita, nei fatti, ad una politica neo-centrista, generando un grande vuoto a sinistra.
Ma attenzione!, non c’è bisogno di una sinistra radicale, protestataria e anti-moderna, ma riformista e di governo, che si candidi a guidare il paese, sulla base delle idee tradizionali della socialdemocrazia europea: intervento pubblico in economia e regolazione del mercato, welfare riformato, redistribuzione fiscale dei redditi, democrazia economica, e dei nuovi fermenti di movimenti di base come Podemos in Spagna e quelli portoghesi, alleati dei socialisti di quei paesi, con la revisione delle norme-capestro per i cittadini europei di Maastricht.
Una domanda, quindi, è d’obbligo: perché la piccola comunità socialista, in tutte le sue articolazioni, dopo il 4 marzo con la desertificazione della presenza socialista in Parlamento, mettendo da parte rancori e divisioni, grande per la sua tradizione e per il suo ruolo nella storia d’Italia, non concorre alla ricostruzione di una sinistra, che voglia svolgere la funzione naturale di rappresentante degli interessi popolari e democratici?
Insomma, è attuale quanto preconizzato lucidamente da Pietro Nenni all’alba degli anni 80 del secolo trascorso, prima della sua scomparsa, allorquando sull’Almanacco socialista scrisse: “Tutto è in questione, tutto è posto di fronte all’alternativa di rinnovarsi o perire”.
Per la politica italiana rimane per intero la “Questione socialista”, intesa non solo come doveroso recupero di una storia e una tradizione che è alla base della nascita e dello sviluppo nel nostro paese di una sinistra inserita nel sistema democratico, contro tutte le vergognose rimozioni di stampo orwelliano, come quella della Rai sui valori della nostra Costituzione repubblicana; ma anche di un rigoroso profilo programmatico, che ponga al primo posto il tema del lavoro e delle sue tutele e dei diritti sociali. D’altronde, nel pieno della cosiddetta “Seconda Repubblica” fu un intellettuale comunista come Alberto Asor Rosa, sovente in odore di “eresia”, che durante gli anni del compromesso storico tra Dc e Pci aveva affermato l’avvenuta sintesi di Turati e Lenin, a dire “la vera anomalia italiana è che manca, da noi, un grande partito socialista”.