-di GIULIA CLARIZIA-
Il 20 gennaio 1893, in quella Sicilia così lontana dallo stato, a Caltavuturo tredici contadini furono uccisi dall’esercito mentre tornavano da una protesta per la redistribuzione della terra. “Un’inumana ed inutile strage che poteva e doveva essere evitata”, queste le parole di don Giuseppe Guarnieri, presbitero e archeologo a cui oggi è dedicato il museo civico di Caltavuturo.
Ma facciamo un passo indietro.
A poco più di trent’anni dall’unità d’Italia, la situazione in Sicilia era di diffuso malcontento. Per combattere le ingiustizie di un’economia agraria fondata sui grandi latifondi, per contrastare una monarchia quanto mai lontana, in nome della giustizia e della libertà, erano nato nel 1891 il Movimento dei Fasci Siciliani dei Lavoratori. In poco tempo, essi raggiunsero migliaia di iscritti fra contadini, operai e minatori alla ricerca di risposte che il governo Crispi e il suo pugno di ferro non stavano dando.
Infatti, dopo fermenti spontanei negli anni precedenti, il primo maggio 1891 a Catania, Giuseppe de Felice Giuffrida, che sarebbe diventato deputato l’anno successivo, diede ufficialmente vita al movimento.
Poi Palermo, Trapani, Siracusa. Nel giro di due anni, ogni capoluogo della Sicilia aveva una sede dei fasci, fatta eccezione per Caltanissetta.
In questo contesto, quel 20 gennaio di centoventicinque anni fa, cinquecento contadini decisero di occupare simbolicamente alcune terre del demanio. Queste, erano state oggetto dell’ennesima promessa di redistribuzione della terra non mantenuta.
Il governo rispose a fucilate. Soldati e carabinieri dispersero la folla uccidendo tredici persone e ferendone altre quaranta. Così passò alla storia l’eccidio di Caltavuturo, piccolo comune in prossimità di Palermo.
Come tutte le ingiuste repressioni, però, il massacro ebbe un effetto catalizzatore.
Manifestazioni di protesta si diffusero a macchia d’olio in Sicilia. La solidarietà giunse da tutta la nazione. Qualche mese dopo, a maggio, i fasci organizzarono un congresso a Palermo: era giunto il momento di darsi un’organizzazione centrale. Venne eletto in quella occasione un comitato che, nell’autunno successivo, portò il movimento all’apice della sua attività.
Di nuovo, però, arrivò la repressione. Interventi militari, arresti, esecuzioni sommarie. Tutto questo portò allo scioglimento del movimento e all’arresto dei suoi leader. Lo stesso de Felice Giuffrida fu condannato a diciotto anni di carcere.
Nel 1986 poi, fu concessa un’amnistia a chi era stato imprigionato in seguito agli eventi dei Fasci Siciliani.
Fu uno dei tanti esempi che dimostra la sordità dell’alta politica dopo l’unità. La scelta del fucile invece della comprensione dei problemi. Non a caso, proprio in quegli anni nasceva il Partito Socialista, prendendo inizialmente il nome di Partito dei Lavoratori Italiani, proprio riferendosi a quei lavoratori che sentivano sempre più il bisogno di essere rappresentati. La società era in fermento e l’allargamento della partecipazione politica era una necessità che nessuna fucilata avrebbe potuto fermare. La questione meridionale invece è ancora aperta. La percezione dello stato come grande assente, se non come nemico è ancora viva oggi soprattutto nel sud Italia. È quanto mai importante allora, ricordare chi ha lottato per una società più giusta, anche lì, in quel sud dimenticato.