-di MAURIZIO FANTONI MINNELLA-
C’è un grande vuoto che si aggira per l’Europa e per l’Italia, si chiama Sinistra, oggi latitante nello spazio europeo occidentale dove crescono sempre di più forze nazionaliste e xenofobe che si candidano a governare in un futuro nemmeno tanto lontano, i rispettivi Paesi, e in quello orientale dove già sono al governo in nazioni come Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca. Le ragioni della sua latitanza non sono molte ma decisive rispetto al formarsi delle nuove condizioni politiche. Una tra le più diffuse riguarda la difficoltà da parte delle sinistre di matrice comunista di confrontarsi con la fragorosa caduta del modello politico-economico sovietico di riferimento, nel non lontanissimo 1990, ossia in una sostanziale impossibilità di riformulare un autentico pensiero di sinistra, coniugando il passato con il presente, e dunque creando nuove risposte a interrogativi sociali sempre più stringenti.
A meno di non voler, come nel caso di piccole sigle politiche attualmente attive in Italia, riaffermare con tenace ostinazione valori identitari ispirati al marxismo-leninismo o alla Rivoluzione d’Ottobre, a costo di trovarsi nel più totale isolamento, o, in altre parole, in una sorta di autoemarginazione che, nella fattispecie dei partiti della cosiddetta sinistra radicale italiana, ha avuto, invece, l’effetto di un richiamo all’ordine, ad un’identità politica che non si vorrebbe smarrita e quindi da riproporre sempre, e che, però esclude quasi sempre la possibilità di un’autocritica o la disponibilità a tessere alleanze politiche utili per la causa stessa. Per questa sinistra-sinistra (che ormai non ha veramente più nulla di estremo) il vero spartiacque è il parlamentarismo, ossia lo stato borghese, rovesciabile solo con la rivoluzione. Ma è soprattutto il sostantivo comunista a definire, pur legittimamente, una sorta di continuità con la propria storia politica iniziata nel XX° secolo, a costituire una vera e propria separazione tra le forze che ancora si definiscono di sinistra. Se invece parliamo di un’altra sinistra, quella socialista nelle sue varianti democratiche o liberali, l’attuale crisi politica verrebbe a coincidere con il nuovo assetto globale dell’economia mondiale (pur sempre conseguenza della caduta del Muro di Berlino e del socialismo reale), ossia nella sostanziale incapacità di affrontare temi primari come la quasi scomparsa della classe operaia e della tradizionale divisione in classi di una società sempre più liquida, baumanianamente parlando, e quindi il difficile tema del lavoro, affidato, invece, a una visione e a una risoluzione economicistica e perciò verticistica. Il progressivo spalancarsi del divario tra ricchi e poveri senza più una classe media forte a fare da cuscinetto e a garantire maggiore equilibrio e coesione sociale. Infine, la questione dell’immigrazione, forse in tale frangente storico, più delicata, capace, da sola, di modificare, anche radicalmente, gli assetti politici europei, croce e delizia di una destra estrema che, cavalcando lo scontento popolare, ritiene di poter determinare un nuovo assetto politico, per il momento, ancora attraverso il sistema delle consultazioni democratiche.
Inevitabile, dunque, che in tale contesto di acquiescenza civile e politica, riemergano prepotentemente fantasmi che, ingenuamente, credevamo sepolti tra le pieghe della storia novecentesca. Parole come populismo, nazionalismo, xenofobia, razzismo, sono altrettanti topoi di un presente nel quale assai meno improvvisamente di quanto sembri, si risveglia nelle masse popolari, poste di fronte a problematiche irrisolte, anzi, sospese in una sorta di limbo, il bisogno di innalzare muri mentali tra sé e gli altri (fenomeno questo che sembrerebbe essere in contraddizione con la cosiddetta atomizzazione dell’io rispetto alla propria dimensione sociale), ma che in questo caso si fa nuovamente soggetto sociale in funzione di una difesa identitaria tendente a trasferire paure e frustrazioni del vivere quotidiano sulle masse esterne provenienti da altre latitudini geografiche e culturali, in prevalenza africane.
Il ripetuto, inquietante richiamo a un’entità nazionale che pensavamo confinato nell’humus identitario dell’estrema destra, comune a tutta Europa, viene progressivamente emergendo in seno a masse di cittadini sempre più vaste che, alla fine, potrebbero trasformarsi in maggioranza, non solamente civile, ma anche elettorale. Un’onda lunga che tenderebbe, non solo a minacciare le istituzione democratiche, ma ancor peggio, a legittimare sentimenti di intolleranza come forme legittime di normalità, capace di generare mostri. Ma se la definizione di populismo non comporta necessariamente al proprio interno la presenza di razzismo e xenofobia, e la cui complessa trattazione richiederebbe ben altro spazio, quella invece, di nazionalismo non lascia dubbi sul persistere del principio dell’esclusione dell’altro come nemico destinato a sconvolgere i già precari equilibri sociali ed economici.
Se analizziamo le principali fasi storiche in cui il popolo italiano si è visto porre frontalmente il problema dell’altro, ossia di un’entità “ostile” o “nemica”, scopriamo che quella attuale può rivelarsi la più pericolosa perché la più ravvicinata con l’oggetto in questione. Durante l’avventura, o meglio, il dominio coloniale italiano nel continente africano, che interessò territori come l’Eritrea, intorno al 1880, sotto il governo Crispi, l’Abissinia e la Somalia nel 1890-96, la Libia, sotto il governo Giolitti, nel 1911, e durante il ventennio fascista, accanto alla proliferazione di stereotipi razzisti (perfino di natura marcatamente sessuale), sulla presunta inferiorità della “razza negra” di cui sono davvero piene le cronache dell’epoca, ci troviamo di fronte ad una vera e propria forma di apartheid che il regime instaurerà in quelle terre, stabilendo una vera e propria separazione tra il cosiddetto popolo indigeno e i suoi “padroni”, ovvero i coloni italiani residenti. Da un osservatorio privilegiato come la madre patria, gli italiani applaudono e, orgogliosamente, tengono viva la fiamma coloniale. Il nemico è lo schiavo domato, colui che non può nuocere poiché è fisicamente lontano. Durante il fascismo, anche il forte pregiudizio antisemita, fomentato e alimentato da politici, scrittori, intellettuali e uomini di provata fede cattolica, rimane prerogativa di una minoranza faziosa e violentemente avversa al popolo ebraico, laddove per le masse si trattò, invece, di un sentimento vissuto prevalentemente in forme tacite o ipocrite.
Dopotutto l’ebreo era un cittadino italiano che lavorava, talora bene inserito nel tessuto sociale ed economico, quindi il pregiudizio fortemente presente e diffuso fra tutti gli strati sociali rimase spesso silente, passivo, perfino di fronte all’applicazione delle cosiddette leggi speciali promulgate dal regime in ossequio all’alleato nazionalsocialista, che costarono non poche vite e a cui si volle reagire con la politica dello struzzo; il non voler vedere quanto accadeva sotto i propri occhi, il non voler sentire le ragioni degli altri (termine che di per sé presuppone nei popoli una sostanziale incapacità di confronto, e quindi di esclusione), conduceva a un clima di indifferenza che definisce per antonomasia quella zona grigia della coscienza collettiva abdicata, territorio ideale e brodo di coltura del totalitarismo. Nel secondo dopoguerra, il boom economico e l’industrializzazione che portò a Torino, Milano e in altre città del Nord Italia quasi un milione di meridionali, manovalanza necessaria per compiere il miracolo della produzione che prenderà il nome di consumismo, per la prima volte metterà a confronto genti diverse nel medesimo spazio fisico, non solo dando vita alla cosiddetta e mai risolta questione meridionale, genti che, pur appartenendo alla medesima nazionalità e allo stesso credo religioso, continuarono per decenni a non comunicare se non attraverso rigidi rapporti di classe. Un altro brodo di cultura per la nascita di un movimento come la Lega lombarda-Lega Nord, che, almeno nella sua fase storica, nel sovvertire il principio della nazione come tessuto unificante, definiva, idealmente, un nuovo, ipotetico territorio statuale per i settentrionali (identificabile nella cosiddetta Padania o Repubblica del Nord), anche grazie al supporto e conforto teorico di un giurista come il comasco Gianfranco Miglio, che affermava in taluni scritti la netta superiorità antropologica delle genti del Nord su quelle meridionali (e non esclusivamente nell’accezione italiana). Ed è proprio in questa prima fase sociale di confronto-scontro serrato tra italiani di origine geografico-culturale diversa, che è possibile ravvisare i segni inquietanti di un presente in cui i meridionali (i famigerati terroni), vengono sostituiti dagli africani sub-sahariani (e prima ancora da rumeni, albanesi e altre genti), portatori di una diversità radicale, che dal colore della pelle giunge fino all’alterità delle fede religiosa, ossia di un Islam che fa paura, che fatica o non vuole riconoscersi, giustamente, nelle sue frange più estreme. In questa precisa fase storica, l’altro da sé si manifesta in tutta la sua magnifica e insieme brutale evidenza. Che poi è la stessa fisicità dei migranti, presenze territoriali, quotidiane, fantasmi di un vagheggiato tanto più impossibile cosmopolitismo. Ci troviamo, quindi, di fronte a un dilemma: innalzare il definitivo muro mentale, nella strenua, patetica difesa di un’identità culturale già fortemente compromessa dalla globalizzazione economica, dall’omologazione dei consumi, dei linguaggi e dei comportamenti, resuscitando mostri che sembravano dimenticati, superati da un’idea di progresso umano che in realtà era solo tecnologico, oppure gettare i semi per una futura società multiculturale in cui non ci si debba più sentire stranieri, ma parte integrante di una grande comunità allargata, a patto, però, di comprendere quale sia il bene comune, e quanto un paese come questo sia davvero in grado di sopportare lo sforzo etico ancor prima che politico, per evolvere in una società finalmente più civile e più umana. Se verremo invece, travolti da una forza superiore alle nostre potenzialità di intelligenza e di resistenza, più grande, allora, sarà la frammentazione tra quanti seguiranno l’onda lunga della rassegnazione e quanti, invece, con le proprie forze, sceglieranno di opporvisi.