-di Edoardo Crisafulli-
C’è un cromosoma difettoso nel patrimonio genetico della sinistra egemone. È il “buonismo”, figlio di una retorica stantia dei diritti. Intendiamoci: la cultura politica dei progressisti di ogni colore, dal rosso al rosa sbiadito, si fonda sul concetto dei diritti universali dell’uomo. È così dalla Rivoluzione francese. Ma non dimentichiamo che un ingegno d’eccezione, Norberto Bobbio, anni dopo aver scritto L’età dei diritti disse che sarebbe stato necessario un altro saggio, a completamento: L’età dei doveri.
Aver gli occhi rivolti al passato non è di per sé un problema: è sempre valido l’aforisma di Bernardo di Chartres: siamo come nani sulle spalle di giganti. L’essenziale, però, è togliersi il paraocchi. Altrimenti vedremo, sì, lontano, ma l’orizzonte sarà sempre lo stesso. Il che è per l’appunto ciò che accade oggi: le riabilitazioni degli sconfitti dalla storia vanno per la maggiore. C’è un gran fervore sulla riscoperta di Marx, il critico implacabile del capitalismo a cui si sono ispirati leader politici spregiudicati – Lenin, Stalin e Mao –, che hanno fatto ruzzolare un bel po’ di teste. In nome del diritto assoluto all’eguaglianza, ovviamente. Il redivivo Marx è stato il più grande pensatore della sinistra occidentale, non c’è dubbio. Ma ce n’è un altro, nato in Italia e vissuto nella stessa epoca; uno dei padri del Risorgimento, un uomo d’azione e di pensiero, la cui eredità andrebbe riscoperta: Giuseppe Mazzini. Il fondatore della Giovane Italia era certamente meno geniale del filosofo di Treviri, ma alcune sue tesi oggi appaiono quasi profetiche. Io, socialista, riconosco che la critica mazziniana del socialismo (che è anche una critica della democrazia sociale, fondata sul Welfare State, dei giorni nostri) ha una sua logica, e merita pertanto una riflessione.
Secondo Mazzini “non esistono diritti se non in virtù di doveri compiuti” (Processo al socialismo, Il Borghese, 1972, p. 11-112). Rovesciando la semantica della sinistra dell’epoca, e pure di quella odierna direi, Mazzini crea un’originale collocazione linguistica: la “solidarietà dei doveri” (p. 127). Ecco di cosa ha bisogno una società equa e solidale: di un’etica della responsabilità. Il culto dei diritti universali dà luogo a una libertà monca, che si fonda sulla “falsa teoria della sovranità dell’io”. Una comunità coesa non può che reggersi sulla sovranità del noi. Considerazioni del genere parevano banali a Marx e ai suoi seguaci: loro, pensatori così nobili e profondi, vagheggiavano la Gerusalemme Terrestre. L’Uomo Nuovo, liberato dalla catene dello sfruttamento e riplasmato dalla rivoluzione, si sarebbe librato ben al di sopra delle banali categorie filosofiche pre-marxiane. Il Regno della Libertà poteva infischiarsene allegramente delle libertà borghesi e della divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu – s’è visto poi com’è andata a finire nella Russia sovietica e negli altri paradisi comunisti. Mazzini aveva ben presente il rischio di tirannia implicito nel socialismo marxiano. Il paradosso è che la sinistra – tramite il culto dei diritti – perseguiva proprio la sovranità del noi. La strada per giungere all’obiettivo era però diversa da quella indicata da Mazzini: la trasformazione radicale del modo di produzione capitalistico. Finché la realtà sociale era polarizzata in maniera netta e semplice – ricchi e sfruttatori da una parte; proletari e sfruttati dall’altra – quella dei diritti non era una retorica, bensì una necessità politica per chi voleva affrancarsi. L’ideologia del dovere assoluto appariva inevitabilmente come una giustificazione del privilegio di classe. Con l’affermarsi delle democrazie sociali, dal 1945 in poi, le cose sono cambiate. L’operaio, idealizzato da Marx quale agente della rivoluzione e del progresso, non è più un suddito: è diventato un cittadino. E lo Stato liberal-democratico non è più il guardiano notturno della proprietà privata, bensì il mediatore di un “compromesso storico” fra capitale e lavoro.
Questo indubbio progresso – l’Europa postbellica si è incamminata sulla Terza Via fra comunismo liberticida e capitalismo rampante – avrebbe richiesto un ritorno al matrimonio indissolubile diritti-doveri, che non c’è stato. Riconosciamolo: siamo tutti – anche a destra! – figli della coppia Rousseau-Marx e della social-democrazia novecentesca: diritti e assistenza per tutti, senza il bilanciamento delle responsabilità individuali. Lo so: in Italia alcuni doveri sono costituzionalizzati. Ma ciò non basta. Il paradigma imperante è incentrato sui diritti. E il sentire comune riflette questo stato di cose. Siamo tutti uguali, no? Tutti meritiamo le stesse cose, nella stessa misura. Era inevitabile che, prima o poi, scattasse il corto circuito. Noi, nati negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, sapevamo bene cosa fossero i doveri: ce li avevano inculcati in testa i nostri genitori, la generazione cresciuta durante la guerra. Oggi che siamo genitori o nonni, capiamo che Bobbio aveva colto nel segno: siamo transitati, quasi senza accorgercene, nell’età dei doveri. Ecco che Mazzini torna d’attualità.
L’immigrazione, fenomeno recente in Italia, è un’occasione utilissima per riscoprire il pensiero mazziniano. Ma chi, nella sinistra egemone, è andato alla radice della questione? Il cromosoma buonista, tenace come la gramigna, ha condizionato i fiacchi e banali dibattiti sul tema. Non dovremmo forse por mano a un patto sociale, che unisca italiani e neo-italiani o futuri cittadini italiani su rinnovate basi culturali e politiche? Cosa si intende per cittadinanza attiva e consapevole? Cosa significa, oggi, appartenere alla polis democratica – nella fattispecie: quella italiana? Urge una ridefinizione di patriottismo! La cittadinanza è una conquista quotidiana che richiede un dare e un avere; è una adesione consapevole a una comunità intessuta di affetti, e non solo di interessi; è una compartecipazione emotiva e simbolica, il cui collante primario è la solidarietà dei doveri. Perché gli extra-comunitari non dovrebbero aspettarsi di ricevere anche loro, come gli italiani, senza dare alcunché in cambio? In fondo, ascoltano l’antifona dominante ogni giorno, mica sono sordi.
Il problema è che la retorica dei diritti traballa, non regge più: una globalizzazione con il vento in poppa (lo soffia, quel vento, un capitalismo speculativo, selvaggio, senza freni), ha cacciato in un vicolo cieco le leadership degli Stati nazionali. I diritti di un tempo non possono più essere garantiti a tutti. Chi è tutelato se li tiene ben stretti; chi rimane fuori dalle tutele cova risentimento: vede i diritti (acquisiti) altrui come forme di privilegio. In questa situazione non c’è più uno sfruttatore identificabile, bensì una lotta di tutti contro tutti per accaparrarsi una fetta della torta, rimpicciolita. Morale della favola: non ci possiamo più permettere né le pensioni di invalidità false né i privilegi per alcune categorie di lavoratori (c’è il pensionato che ha versato dieci e percepisce cento, e quello che ha versato cento e percepisce dieci), né le elargizioni a pioggia per gli altri – né ovviamente possiamo più accettare il lavoro in nero e l’evasione fiscale. Il capitalismo globalizzato e le banche avranno mille colpe, ma nessuna comunità può seriamente basarsi sulla filosofia del capro espiatorio (oltre alle banche e all’UE: i politici, la casta, i dipendenti pubblici, gli immigrati ecc.), arma letale nelle mani dei demagoghi e dei populisti.
In un contesto di immigrazione massiccia, perseverare sulla strada già tracciata – la scissione fra diritti e doveri, il buonismo assistenzialista – è stato un errore politico clamoroso. Quell’errore ha alimentato la propaganda fascioleghista che, guarda caso, ignora il cancro dell’evasione fiscale: italiani ricchi che rifuggono, a loro volta, da un preciso dovere costituzionale, quello di contribuire alle spese sociali (I grandi evasori usufruiscono di servizi pubblici pagati dai loro connazionali, gli italiani poveri e i pensionati, altroché “fratelli d’Italia!”). La situazione sociale è diventata esplosiva: a questo punto succede che gli emarginati nativi, gli italiani “DOC”, voltano in massa le spalle alla sinistra: “Avete pontificato sui sacrosanti diritti e ora non mantenete più la promessa; anzi quel poco che c’è lo date agli stranieri: accogliete tutti a braccia aperte, promettendo case e lavoro e assistenza gratuita.” Tutto spetta a tutti per diritto innato, tutto piove dal cielo come la manna, nulla è una conquista. Né è lecito stabilire priorità anche solo vagamente interpretabili come discriminatorie verso gli stranieri (per esempio: l’impiego nei lavori socialmente utili). Ovvio che gli stranieri di recente immigrazione alla fin di questa fiera luccicante rimangano delusi anche loro. Pian piano scoprono l’amara verità: la promessa social-democratica, come l’hanno percepita loro ancor prima di mettere piede in Italia (Lamerica di Amelio, l’Eldorado), è falsa: non ci sono risorse illimitate, e le divisioni sociali sono come i muri di Alcatraz: invalicabili. Loro appartengono al lumpen proletariat. Gli ultimi degli ultimi, insomma. Quella fra italiani e stranieri è una voragine. A quel punto c’è il lavoro in nero, la raccolta dei pomodori, il campare di espedienti, o addirittura il crimine.
Potrebbe scoppiare una guerra guerreggiata fra poveri – in aumento esponenziale a causa dell’immigrazione e della concomitante proletarizzazione del ceto medio. Questo in un momento delicatissimo, di passaggio fra un’epoca e un’altra: le frontiere dello Stato nazionale saranno sempre più sfumate, e il multiculturalismo ridisegnerà nei prossimi anni l’identità italiana. Come rilanciare un’azione riformista incisiva, in un contesto del genere? Suggerisco si torni ai “fondamentali”, ovvero alla riscoperta del nesso diritti-doveri, che è sommamente democratico: è uguale per tutti. Stranieri in fase di integrazione (ovvero: futuri italiani) e italiani di lungo corso dovranno convivere sulla base di norme chiare e certe, che regolino l’avere e il dare. Ecco come cementare una comunità fondata sui diritti universali, alle soglie del nuovo millennio: si ripeta ossessivamente che per ognuno di quei diritti scatta un preciso dovere nei confronti dei propri connazionali.