Un fantasma si aggira nella vicenda Ilva. Ha un nome: Carlo Calenda. Ieri il ministro per lo sviluppo industriale ha fatto quel che avrebbe dovuto fare tempo fa: ha bloccato la trattativa con azienda (AM InvestCo) e sindacati per carenza di garanzie. In sostanza il ministro ha “scoperto” quel che molti (compreso questo blog) temevano da tempo: una partita con le carte truccate. Da tempo ci si chiede, infatti, se non fosse opportuno la riapertura dei giochi dopo che l’altra cordata, cioè Jindal e Leonardo Del Vecchio, aveva rivisto al rialzo la sua offerta e presentato un piano decisamente più chiaro di quello a cui i commissari hanno invece dato credito. Da tempo ci si interroga sull’opportunità del ritorno a Taranto di un protagonista della scena industriale italiana (Marcegaglia) che nella principale delle città toccate da questa vicenda aveva lasciato tracce recentissime per nulla commendevoli soprattutto dal punto di vista dell’affidabilità dei piani di investimento essendosi, al contrario, distinto in quelli di disinvestimento.
Quel che sinceramente sconcerta sono le dichiarazioni dei rappresentanti del governo italiano, dal vice-ministro Teresa Bellanova, al ministro Claudio De Vincenti. Ancor di più sconcerta il silenzio del presiedente del Consiglio, Paolo Gentiloni, per non parlare della completa uscita di scena di Matteo Renzi che porta sulle sue spalle una parte non irrilevante di responsabilità. Abbiamo recentemente scoperto che gli interessi dell’industria italiana (ormai scarnificata e venduta a pezzi al miglior offerente come si fa nei fallimenti) vanno difesi; abbiamo mandato è persino in scena il braccio di ferro con Macron sui cantieri francesi. Ma la realtà è che i governi che si sono avvicendati negli ultimi decenni non hanno e non hanno mai avuto una vera e coerente politica industriale. Perciò non sono in grado di difendere alcunché. Si affannano nella caccia ai cosiddetti investimenti stranieri senza capire quel che illustri economisti non solo italiani dicono da tempo e cioè che sono gli investimenti nazionali che fanno la fortuna e la robustezza sistemica di un Paese dando a quelli stranieri il carattere aggiuntivo della ciliegina sulla torta e non quella del bastone nodoso del colonizzatore. Noi, però, nel disinteresse generale, anche della classe imprenditoriale, stiamo ormai terra di conquista. Per giunta a prezzi di saldo.
Ed è veramente avvilente che un ministro si accorga, dopo un processo lungo e che nelle intenzioni doveva garantire una soluzione al di sopra di qualsiasi sospetto, che non ci sono le garanzie. Sorge spontanea una domanda: e i commissari che carte hanno letto, che piani hanno passato al microscopio, quali piani di sviluppo hanno criticamente valutato? E il governo come ha vigilato su una procedura che riguarda decine migliaia di lavoratori e centinaia di migliaia di persone coinvolgendo grandi città come Genova e Taranto? Era proprio necessario giungere a questo punto per scoprire che le cose non erano come si sperava che fossero? Nella migliore delle ipotesi i commissari sono stati superficiali e il governo disattento. La peggiore ci asteniamo dall’illustrarla: è facilmente comprensibile. In tutti e due casi dalla vicenda emerge un Calenda incorporeo. Un fantasma.