Una notizia clamorosa ha devastato il mondo politico nazionale e internazionale: il ministro per gli affari regionali, Enrico Costa, si è dimesso. L’aspetto clamoroso della notizia non sta nel fatto che sia andato via, ma nella indiretta conferma che sino a poche ore fa ancora ci fosse ancora e lottasse insieme a noi. Perché di Enrico Costa così come non si è avvertita la presenza, allo stesso modo non si avvertirà l’assenza (che, volendo, è anche peggio). L’ex ministro è un po’ come quegli invitati un po’ egocentrici che si domandano prima di presentarsi a un evento se li si nota di più accogliendo l’invito o declinandolo. In realtà il dilemma non si pone: sulla vita degli italiani il suo “rifiuto” di stare all’interno di un governo che certo non brilla per attivismo, lo renderà visibile almeno nella stessa misura in cui lo è stato sino ad ora facendone parte. Semmai Costa potrebbe essere un utile oggetto di studio per chi volesse provare a misurarsi con i piaceri e i dispiaceri del renzismo. Lui fa parte dei dispiaceri. Rappresenta quella deriva centrista inutilmente perseguita dal leader di Rignano immerso nel sogno elettorale del 40 per cento. La realtà, però, è diversa. Perché, alla fine, non regala nuovi approdi politici ma solo l’esasperazione di un vecchio malanno italiano: il trasformismo declinato nella versione più estrema del fregolismo costiano. Come diceva Flaiano: sulla bandiera di ogni italiano campeggia un motto: “Tengo famiglia”. Ce l’ha anche Costa e ha capito che per adempiere ai doveri del “buon padre” doveva darsi da fare per trovare una sistemazione più sicura essendo il centro sognato solo sino a qualche anno fa lavorando di sponda onirica con Renzi, ormai in declino, anzi in disarmo. È tempo di elezioni. È tempo di traslochi. Si salvi chi può.