Don Milani e Don Mazzolari nella Chiesa di Francesco

 

-di SANDRO ROAZZI-

La Chiesa è maestra di simboli. La ragione è semplice: la testimonianza di vita diventa esempio, anzi è profezia. Talvolta poi restituisce ciò che fu tolto a chi ha testimoniato la fede in modo scomodo ma autentico e disinteressato. E’ il caso di Don Primo Mazzolari e don Milani, oggi “visitati” da Papa Francesco che li ha accomunati in una “traccia luminosa” per il clero ma anche per i laici. Protagonisti di una Chiesa “in uscita” e non rinchiusa in se stessa, i due parroci furono avversati in vita, isolati, guardati con sospetto da un cattolicesimo ufficiale che non amava i profeti, specie quando parlavano in nome degli ultimi.

Eppure don Mazzolari precorse il Concilio Vaticano II e la nuova comprensione del moderno e della voglia di riscatto nella realtà operaia e contadina; don Milani affermò il diritto dei giovani poveri all’uguaglianza nella istruzione. Francesco in modo affettuoso ma perentorio indica in loro quel valore della testimonianza che è agli antipodi “del lasciare fare”.

Mazzolari fu cappellano militare nella prima guerra mondiale, fu convinto assertore dell’idea che “il futuro è nella democrazia” quando sorgeva il fascismo, dopo l’8 settembre accettò la clandestinità per non piegarsi al nazifascismo. A lui si deve la scelta vigorosa in favore della pace minacciata dalle contrapposizioni della guerra fredda.
Don Milani è il parroco che scandalizza i benpensanti con la frase “l’obbedienza non è più una virtù”. Non mette in discussione la fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, la sua conversione avviene leggendo la Messa che trova… più interessante del Pirandello di “sei personaggi in cerca di autore”. Ovvero la fede oltre le apparenze. Inventa quel “I care” poi veltroniano, ma quell’interesse non è per una generica modernità ma per l’emancipazione dei poveri, attraverso quella strada maestra dell’istruzione che sarà una bandiera del movimento sindacale dall’autunno caldo in poi (le 150 ore…), precorsa dalla famosa e discussa “lettera ad una professoressa”.

Papa Francesco allora scuote il ramo gerarchico della Chiesa più tradizionale con questa visita e con il monito a “farsi evangelizzare dai poveri” come i due parroci. Una direzione di marcia controcorrente per una Chiesa che deve vivere una globalizzazione egemonizzata dalla finanza.
Preti scomodi e controversi, dunque. La “riconciliazione” avviene in una semplice ma intensa frase: “difficile fare bene senza sporcarsi le mani”. Se per don Mazzolari già il Cardinale Montini e Papa Rocalli avevano colto il dono profetico della sua testimonianza religiosa e civile, per don Milani (perfino accusato di pedofilia) questo omaggio è una sorta di “primo” riconoscimento papale del valore della sua missione. Perché anche la scuola di Barbiana è missione, oltre ad essere palestra di libertà e promessa di eguaglianza.

Ma questo viaggio lampo papale ha anche il valore di dimostrare che c’è una Chiesa che non aspetta più secoli per riconoscere i suoi errori di valutazione in nome di una ortodossia che in realtà rischia di essere prigioniera della paura di fare i conti con i cambiamenti. E invece oggi bisogna correre in un mondo nel quale stare alla finestra vuol dire rinunciare al proprio ruolo. Don Mazzolari e don Milani sono poi due cultori umili ma determinati di valori che oggi appaiono sbiaditi anche nella convivenza civile. Lo schierarsi senza paura, il mantenere le proprie convinzioni anche quando non si è compresi. Il cercare di convincere che “nessuno è fuori della carità”.

Il Papa ritrova così una memoria storica e religiosa che sembrava ormai desueta e priva di attualità ed è invece ricca di fermenti e lezioni ancora preziosi. C’è da chiedersi se la cultura laica, anch’essa ricca di esperienze storiche di grande rilievo sia capace di fare altrettanto. Invece troppo spesso il passato viene rimosso, le grandi personalità diventano “santini” intoccabili. Il contrario della Chiesa di Francesco che restituisce alla nostra riflessione i protagonisti in carne e ossa.

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