-di ANTONIO MAGLIE-
Poco abituati, al contrario di noi italiani, allo scoppiettante folklore della politica in formato televisivo, la Francia sembra essere sotto choc dopo il dibattito che ha contrapposto i due candidati al “soglio” presidenziale, Emanuel Macron e Marine Le Pen. Una rivelazione così inquietante da indurre il direttore di “Le Figaro”, giornale conservatore, ad affermare che si è trattato del confronto “più violento della lunga storia delle elezioni presidenziali”. Aggiungendo, per essere ancora più chiaro qualche riferimento ai dibattiti passati: “Giscard-Mitterrand 1974? Chirac-Mitterrand 1988? Amabili conversali da salotto”. Persino la conduttrice Nathalie Saint-Cricq (assistita in questa sorta di salto nel cerchio di fuoco dal collega Christophe Jakubyszun) si è dichiarata “frustrata” (non hanno toccato palla finendo per essere emarginati dai due “pugili”), aggiungendo: “Abbiamo sottovalutato il dibattito con il Front National. Non è un partito come gli altri. E Marine Le Pen lo ha confermato ancora una volta”.
E già, perché il problema è proprio questo: è stato sufficiente un confronto televisivo per prendere atto che dietro gli slogan nuovi in realtà c’è sempre la vecchia, pericolosissima destra. Svestiti i panni del moderno “sovramismo”, Marine ha indossato il cappotto stazzonato del papà, Jean Marie dimostrando alla fine che tutti i suoi tentativi per archiviare quel passato che puzza, a tanti decenni di distanza, di fascismo e collaborazionismo, hanno un sapore più strumentale che reale. Come ha spiegato il docente di scienze politiche, Stéphane Rozès, Marine le Pen “avrebbe potuto giocarsi la linea nazionale di Philippot e Dupont-Aignan ma il suo impulso inutilmente aggressivo l’ha spinta verso il padre. Avrebbe potuto e dovuto condurre una campagna per il secondo turno, ha invece condotto una campagna per il primo”. In sostanza, il tentativo di ingraziarsi la destra repubblicana e moderata copiando i discorsi di Francois Fillon (in questo, degna emula della signora Trump: è evidente che gli estremi si attraggono, nonostante un oceano) è stato di fatto smentito e ha prevalso l’istinto a chiamare a raccolta i vecchi, consolidati, fidati militanti.
Cosa accadrà domenica nessuno lo sa. Ma è evidente che la posta in gioco va ben oltre la Francia e non riguarda semplicemente chi vince e chi perde ma cosa si vince e cosa si perde perché dietro la maschera del “sovranismo” (parola nuova che nasconde pulsioni vecchie) si celano culture politiche che faticano ad avere un felice e rassicurante rapporto con la democrazia. Da questo punto di vista cosa si vince (o si può vincere) e cosa si perde (o si può perdere) riguarda tutti noi, la nostra civiltà, l’idea di libertà che si siamo formati nel tempo anche grazie al sacrificio dei nostri padri. In ballo non è un’elezione ma una condizione.
Non a caso il direttore di “Le Monde”, Jerome Fenoglio, ha usato parole chiare e dirette: “A coloro che l’avevano dimenticato, questo match di pugilato ha ricordato crudelmente cosa è la destra francese. A coloro che dimostrano di non saper stabilire la gerarchia dei rischi, questo spettacolo ha indicato il più grande di tutti i pericoli: l’irruzione nel cuore della democrazia francese della brutalità e della doppiezza della tradizione politica e familiare che incarna Marine Le Pen… Marine Le Pen ha svelato come userebbe il potere se per disgrazia le fosse consentito di esercitarlo. È apparsa l’erede di un agire politico che ha sempre fatto leva sulla denigrazione e sulle minacce. Il primo campione di un estremismo pronto ad approfittare di tutte le paure, di approfondire tutte le divisioni e di agitare tutti i fantasmi”. Forse è solo un’impressione, ma questa lettura si adatta perfettamente ad alcuni campioni nostrani del “sovranismo” e del populismo. Facciamone tesoro e proviamo a irrobustire i nostri anticorpi democratici.